“Schlein ha ravvivato il Pd, ha dimostrato che leader non si nasce ma si diventa”, parla Nadia Urbinati

RMAG news

L’Europa dopo il voto. La crisi dei due giganti, Germania e Francia, l’anomalia italiana. L’Unità ne discute con Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York.

Professoressa Urbinati, quale il tratto più significativo dell’Europa uscita dalle elezioni dell’8-9 giugno?
Sul piano europeo, il voto dischiude scenari ancora imprevedibili. Siamo in una fase critica di mutamento. La criticità riguarda soprattutto i due Paesi-guida dell’Europa, i pilastri su cui si è fondata l’Unione: Germania e Francia. Dai due Paesi e dalla loro solidità dipende molto quel che sarà dell’Europa.

Partiamo dalla Francia.
Macron in maniera un po’ azzardata ha pensato di forzare la mano, dopo il tracollo del suo partito e la vittoria di Marine Le Pen, e fare in modo che la destra, se vincerà, vinca nel corso della sua presidenza, e non con un loro esponente all’Eliseo, sperando che poi l’esercizio di governo li logori prima che possano esprimere un presidente. Forse questo è lo scenario che ha disegnato Macron. C’è chi parla di azzardo e dipinge Macron come un pokerista che gioca l’ultima mano, sperando di portare a casa il bottino e rovinare i piani dell’avversario. Staremo a vedere. Quel che è certo, è che la sua mossa è il segno di una paura evidente che la destra, quella destra lepenista, possa guidare il paese.

E la Germania?
Idem. I due partiti che caratterizzano maggiormente l’attuale alleanza di governo, la Spd e i Verdi, sono stati entrambi bastonati dal voto. Ora, molto dipenderà dall’atteggiamento che assumerà, sia in Francia che in Germania, un centro politicamente sano e consapevole delle proprie responsabilità (un centro che da noi è assente). Ben presto si vedrà se i popolari avranno la capacità di contenere l’espansione della destra peggiore o se invece avranno l’ambizione, che rasenta la spregiudicatezza (quella dimostrata anche da Ursula von der Leyen in Europa), di poter fare accordi con tutti, convinti che se anche gli ospiti sgraditi vengono fatti salire in barca, poi saranno costretti a remare nella direzione stabilita dall’alleato più forte. Hanno messo in conto che questi potrebbero rendere il viaggio impossibile e asservire i popolari ai loro piani? Le elezioni dell’8-9 giugno ci consegnano una Europa il cui destino è fortemente legato a quello delle due “locomotive” – Francia e Germania – entrate in panne.

Per quanto riguarda l’Italia?
L’Itala è una eccezione rispetto all’Europa. Non ha avuto grandi sommovimenti dal voto. Meloni ha portato a casa un risultato che, in percentuale anche se non in numeri assoluti; benché l’enorme potere propagantistico (con il controllo di tre televisioni nazionali) poteva far sperare in un superamento del 30%. A Renzi e a Salvini era riuscito. A Meloni, no. L’Italia ha dimostrato due cose molto interessanti, nel voto europeo, anche se non trasferibili meccanicamente in una futuribile dimensione nazionale. Teniamo conto che queste sono state elezioni con sistema proporzionale, che l’Europa non è sentita vicina agli interessi di vita (o almeno così viene percepita), che il voto alle europee è più idealistico e non è sovrapponibile al voto nazionale. Tuttavia, ha evidenziato alcuni dati politici interessanti…

Quali?
La stabilità della figura-Giogia e del suo partito rispetto alla coalizione, marcando un rafforzamento significativo, soprattutto nei confronti del partner di governo più “astioso”, la Lega di Salvini.
La stessa cosa si può dire guardando a sinistra, con Elly Schlein e il Pd.

Interessante è anche il risultato ottenuto dalla sinistra-sinistra, l’Alleanza Verdi Sinistra.
Assolutamente sì. È la prima volta che si ottiene un buon risultato senza e spesso contro il sostegno dei media nazionali; un risultato per i più inaspettato, della parte più a sinistra del centrosinistra. Un buon risultato che, a mio avviso, si basa su due elementi di fondo. Il primo, è il fattore-Salis. L’Avs ne ha fatto la sua bandiera e molti hanno votato, ne conosco alcuni, più per liberare Ilaria Salis che per le idee dei due partiti che l’hanno messa in lista. Il secondo elemento è la pace. In questo clima di guerra, le posizioni più chiare e tuttavia non ossessive (penso alla lista di Santoro), sul versante pacifista, hanno attirato di più, soprattutto i giovani elettori. Che Avs riesca a consolidare nel tempo questo risultato, è tutto da vedere. Diciamo che si sono trovati a incrociare due elementi a loro favorevoli.

Il Partito democratico. In nostre precedenti conversazioni, lei aveva insistito con forza e passione sul tema del rinnovamento del partito. Il risultato elettorale fatto registrare dal Pd va in quella direzione?
Per me sì. E sono molto contenta di questo. Perché va nella direzione sperata. E molto del merito va alla dirigenza politica di Elly Schlein. Lei ha dimostrato, anche a nostri riottosi critici, che non si nasce leader ma lo si può diventare; lei è diventata una buona leader, ammirevole per diversi tratti del suo agire politico.

Ad esempio?
Innanzitutto, la sua capacità di movimento, una fisicità encomiabile. Si è spesa in tantissime attività con una generosità ammirevole. Poi, è stata capace di aggirare il problema, pesante, del monopolio radiotelevisivo di Fratelli d’Italia e di Giorgia, andando direttamente a fare campagna elettorale come ai vecchi tempi. Questo è stato un colpo di genio. Che ci dice che è una leader, perché ha capito come adattare l’azione alle circostanze sfavorevoli per conquistare consensi. Questo ha portato con sé un effetto a cascata positivo. Necessità fa virtù, verrebbe da dire. Col suo attivismo ragionato, Elly Schlein ha ravvivato il partito, rendendolo più unito e più attivo. Ha costretto praticamente tutti i candidati a seguirla. Non è una leader sola al comando. È una leader che può fare collettivo. Come si è comportata in questa campagna elettorale, tenendo anche conto delle bastonate politiche avute in Puglia e in Basilicata, beh, tanto di cappello ad Elly Schlein. In passato abbiamo avuto segretari che per molto meno hanno sbattuto la porta e se ne sono andati. Lei è rimasta in campo e ha combattuto (anche resistendo ai tentativi di rovesciarla che pure ci sono stati nel partito), dimostrando grande coraggio e capacità di leadership.

Interessante, a proposito dell’importanza del radicamento nei territori, gli eccellenti risultati ottenuti, in termini di preferenze, da sindaci e presidenti di regione, come Dicaro, Bonaccini, Gori, Ricci, Nardella e altri ancora.
Un dato di grande rilevanza politica, tenendo anche conto di come era nata la candidatura Schlein alla guida del Pd, con una lacerazione tra dentro e fuori del partito, come se ci fossero due partiti. La lacerazione è stata superata e ricomposta. Nel senso che gli amministratori hanno dimostrato di essere una componente aggregativa di fondo, cioè il partito conosciuto sul territorio; e quindi la Schlein, intelligentemente, ha fatto la campagna elettorale con loro, non inventandosi candidati suoi (e li ha spediti a Bruxelles!). Un po’ tattica e un po’ strategia, certo. Ma l’esito è risultato estremamente positivo. Non solo li ha inclusi tutti ma li ha anche sostenuti e seguiti. Lei ha fatto campagna elettorale con Bonaccini, con Decaro, con Gori….Ciò significa che il partito ha una base importante, non è vero che è totalmente disarticolato nei territori. Certo, è una classe amministrativa, e questo non è sufficiente; però la presenza del PD sui territori c’è, ed insieme c’è una leadership nazionale forte. Guardiamo per l’opposto alla Francia. In quel Paese sta succedendo, a sinistra, quello che era successo qui da noi fino alla Schlein. Una lunga traversata nel deserto, fatta di divisioni e lacerazioni. Possiamo dire oggi di avere fatto passi importanti per uscire da questo deserto. Siamo in una fase più avanzata rispetto alla crisi che investe il centrosinistra oggi in Francia. Con la differenza, che loro hanno un presidente, un fattore esterno, capace di imporgli di unirsi o sennò morire. Noi non abbiamo questo un fattore istituzionale esterno ai partiti; da noi, il progetto di unirsi è dettato solo dalla volontà e dall’intelligenza dei leader e dei partiti, e questo è più faticoso come vediamo.

I 5Stelle di Conte e i centri di Renzi e Calenda?
Dal punto di vista politico il loro piano è fallito. Non sono leader capaci di comprendere quel che è opportuno e quindi giusto fare; farsi dettare l’agenda dal proprio ego smisurato è fallimentare. Non sanno vedere quel che a loro conviene. Sono leader contro se stessi.

Una certa politologia dissertava sulla dicotomia irrisolvibile tra la “democrazia dell’audience” e la democrazia organizzata dei partiti. Si può dire che la seconda abbia mostrato segni importanti di vita?
Mettiamola così: la democrazia dei partiti, come li conoscevamo, di massa, organizzati, appartiene al passato. Ma i partiti comunque esistono, ed esisteranno fino a quando esisterà la democrazia. Oggi ci sono partiti, anche importanti, penso a Fratelli d’Italia, che crescono grazie ad un radicamento non tanto nella società quanto nello Stato. La Meloni è forte perché è nello Stato, se ne fosse fuori non lo sarebbe così tanto. I partiti come strutture dirottabili, entrano nello Stato, vivono di questo e si organizzano. Un progetto che riesce ovviamente meglio a chi governa. Il fatto interessante è che per i partiti di opposizione, che non possono sfruttare lo Stato come coloro che governano, s’impone di essere qualcosa in più di una macchina per la selezione di candidati. S’impone loro di essere presenti e anche radicati. La dialettica maggioranza-opposizione è quella che alla fine salva i partiti, che debbono per forza esistere anche fuori dalla dimensione statale. E qui si impone la “democrazia dell’audience”. C’è ed è fortissima, i populismi ne sono un prodotto. Essa detta temi e forme del discorso pubblico. Noi ascoltiamo i media e decidiamo qual è il leader che piace, non viceversa. La democrazia del pubblico ha il potere di condizionare quello che i leader dicono e come lo dicono, nel teatro della rappresentazione. La teatralità emotiva della “democrazia dell’audience” esiste, eccome! Pensiamo che la Meloni è riuscita nel giorno della commemorazione della strage di Piazza della Loggia, a tenere l’intero Paese mediaticamente appeso alla sua parola “stronza”, nel saluto al presidente della Campania. Questo è audience all’estrema potenza. Se i partiti di opposizione vogliono in qualche modo uscire dal ghetto nel quale chi domina l’audience li getta, devono tornare nella società. In questo senso, è importante il risultato ottenuto dal Pd di Schlein al Sud, quella parte del Paese che ha meno aggregazioni associative nella società civile e che quindi necessita di più partito. E il Pd ha svolto la funzione di dare più aggregazione ad una società largamente dis-organizzata. Il Pd deve continuare a muoversi in questa direzione, essere corpo intermedio che può dare potere di voce, non essere partito testimonianza, come ha invece rivendicato Conte quando in campagna elettorale ha sostenuto, come un vanto, che a lui non interessa il governo, interessa dire le cose giuste. Ma come! Lo scopo di un partito è aggregare consensi per governare il paese; mettere in campo le strategie necessarie per raggiungere questo obiettivo.