Scuola: 15 ministri in 30 anni, ognuno con la propria (inutile) riforma

Scuola: 15 ministri in 30 anni, ognuno con la propria (inutile) riforma

Il Quotidiano del Sud
Scuola: 15 ministri in 30 anni, ognuno con la propria (inutile) riforma

Trenta anni, 15 ministri, ognuno con una riforma sulla scuola diversa. Gli interventi di turno riguardano il voto in condotta, il cellulare in classe e i docenti tutor. Più facile, meno utile

Tutti ci provano, nessuno ci riesce. Tutti dicono di riformarla, nessuno lo ha fatto veramente. Tra meno di due settimane inizia il nuovo anno scolastico per sette milioni e duecentomila studenti e un milione e 200 mila tra docenti e personale Ata, i vecchi bidelli, i dirigenti scolastici e tutte le nuove figure che ogni ministro ha introdotto con la “sua” riforma. Quindici ministri dell’Istruzione in trent’anni, da Giancarlo Lombardi nel primo governo Berlusconi a Valditara, il leghista ultimo arrivato in viale Trastevere, da Luigi Berlinguer che ha resistito per tre governi (Prodi 1, D’Alema I e II) e alla fine se ne andò in lacrime ai pentastellati Fioramonti e Azzolina. Quindici in trent’anni, ogni due anni cambia ministro in viale Trastevere, ogni volta si ricomincia da capo o quasi. Obiettivo di tutti e di ciascuno: riformare la scuola, renderla competitiva e performante, attrattiva per gli studenti.

Chiariamo subito, che le generalizzazioni non sono mai un buon metodo: abbiamo punte di eccellenza che il mondo ci invidia soprattutto fino alle medie, alcuni sono autentici atti di eroismo come Eugenia Canfora preside dell’Istituto Morano a Caivano, una che va casa per casa a trovare i ragazzini che non vanno a scuola. E però abbiamo anche moltissimi problemi, storici e anche nuovi.
Così, di riforma in riforma, la scuola italiana, è e resta l’eterna incompiuta, prigioniera di un modello arretrato, insufficiente, inadeguato, soprattutto dalle superiori in avanti.

Il ministro in carica, il leghista Valditara, in due anni ha messo in cantiere una ventina di riforme. Un numero enorme nell’arco di due anni. Vedremo poi di questi “interventi” più che vere riforme, quanti saranno effettivi e reali.
È un elenco in cui si trova la rivoluzione della formazione tecnica (il debutto della formula 4+2, quattro anno a scuola e due nelle ITS Academy) e la stretta sul voto in condotta, lo stop dell’uso dei cellulari in classe (fino alla terza media) e la lotta alla dispersione scolastica, le misure per il sostegno agli alunni stranieri (dall’anno ’25-’26 ci sarà un insegnate dedicato nelle classi con il 20% di stranieri) e quelle per migliorare la formazione e l’attività per gli insegnanti di sostegno e quindi anche dei ragazzi a loro affidati, il ritorno del voto in condotta che prevede anche la bocciatura e le sanzioni pecuniarie (da 500 a mille euro) a carico di alunni e famiglie che aggrediscono il personale scolastico.
Ahimè, anche questo, sì. Non c’è traccia, nonostante promesse e conferenza stampa, tra le riforme di Valditara di quelle ore dedicate all’affettività all’educazione sessuale di cui si parla da anni come possibile strumento per educare i giovani e giovanissimi contro bullismo e violenza di genere.

Di riforma in riforma sono passati appunto trent’anni. Dalla “strategia del mosaico” di Berlinguer (’96-2000) alle “Tre I” della Moratti (2001-2006) che c’aveva visto giusto con “Inglese-Impresa- Informatica” solo che poi servivano i docenti e quelli non c’erano; dal “metodo del cacciavite” di Fioroni (2006-2008) per smontare tutto quello che frena il “necessario percorso verso una maggiore efficienza ed equità” alla riforma Gelmini (2008-2011) che viene ricordata soprattutto per i tagli imposti dal ministro Tremonti.

Politiche di tagli e razionamento, che non sempre significano impoverimento, portata avanti dal ministro Profumo (2011-2013). Poi arriva la “Buona scuola” del governo Renzi, forse la riforma più organica (stabilizzazioni, chiamata diretta dei docenti, alternanza scuola-lavoro) ma così ostica per i sindacati da essere l’inizio della fine del governo Renzi. Alla ministra Valeria Fedeli ancora oggi riconoscono il merito di aver iniziato a stabilizzare gli insegnanti di sostegno, il ruolo più difficile e anche quello più precario.
E sapete perché? La diagnosi di disabilità viene fatta di anno in anno, non c’è mai un numero stabile e quindi anche l’insegnante di sostegno segue questa instabilità. Quello che c’è di molto stabile è che il numero degli studenti DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) era lo 0,9% nel 2010 ed è oggi tra il 5 e il 6%. Instabili ma in costante crescita. Ma gli insegnanti di sostegno sono ogni anno gli ultimi, i meno specializzati e i più precari.

Paradossi che quindici ministri e trent’anni non sono riusciti a risolvere. Anche perché l’ultimo che arriva cerca sempre di cancellare quello che è stato fatto prima di lui o lei. Come se mettersi a sedere negli uffici di Trastevere facesse calare sulla testa una sorte di luce messianica per cui ciascuno si sente investito della sacra missione – riformare la scuola – e finire sui libri di storia.
L’ansia da riforma scolastica si spiega anche con la ricerca del consenso. Tra alunni e docenti e personale Ata, si parla di quasi dieci milioni di individui e famiglie, il più largo bacino elettorale. Azzeccare la riforma della scuola sarebbe in termini numerici e di credibilità il miglior investimento per un politico e le sue ambizioni.

E dire che basterebbe “poco” per riuscire. Di sicuro serve un’analisi lucida dello stato dell’arte e delle vere urgenze. Servono più soldi. “Spendiamo più per pagare gli interessi sul nostro debito pubblico che per l’istruzione” ha detto il governatore della Banca d’Italia. Circa il 4,1% contro una media europea del 4,7.
Mancano fondi per le normali attività scolastiche, per la manutenzione ordinaria degli edifici scolastici per lo più inadeguati, senza palestre né locali di studio né spazi idonei (80% si trova in edifici vecchi costruiti per altro) e per gli stipendi bassi degli insegnanti, stabilmente sotto la media Ocse (circa milletrecento euro a inizio carriera; poco più di duemila euro a fine percorso).
E poi i balletti delle supplenze per coprire i posti scoperti (dovuti in parte alla disponibilità delle cattedre, in parte al malcostume di chi si candida per un incarico lontano da casa e, poi, si mette in malattia), supplenze pagate con mesi di ritardo, tecnologie digitali impiegate poco e male per un digital divide ancora altissimo specie nel personale docente, il tempo pieno abolito e mai più ripristinato sebbene sia la soluzione in alcuni territori, alcune periferie, il sud e le isole dove la scuola è spesso l’unico centro di aggregazione e socializzazione.

Se fino alle elementari abbiamo percorsi e moduli educativi tra i migliori, dalle medie in poi c’è il crollo. Formazione e reclutamento degli insegnanti è il problema di fondo della scuola italiana. Qualche numero: 800 mila docenti di cui il 40% vicino alla pensione. Come saranno rimpiazzati? Con docenti già anziani e che vanno a scorrere nelle graduatorie? O con i nuovi abilitati freschi di concorso? È lo scontro di sempre in un sistema che ha prodotto negli anni 130-140 mila docenti precari. Dal 2020 al 2030 ci sarà un milione di studenti in meno, dalle classi-pollaio si arriverà alla classi-bonsai con 15 studenti. Che fare con gli insegnati in più? Qualcuno sta pensando a rendere finalmente effettivo il tempo-pieno anche con nuovi corsi e discipline?

Poi ci sono le occasioni sprecate. Se il Superbonus edilizio del 110% fosse stato destinato alle scuole, avremmo finalmente edifici e spazi dove i ragazzi amano stare e crescere. Avremmo fatto debito buono e non restaurato castelli e masserie. E se tra le modifiche del Pnrr si fosse pensato ad inserire quella sui docenti, adesso ci sarebbero più cattedre occupate e meno precari nelle liste. Ma la riforma di turno riguarda il voto in condotta, il cellulare in classe e i docenti tutor. Più facile. Meno utile. E la scuola più riformata d’Europa, resta da riformare.

Il Quotidiano del Sud.
Scuola: 15 ministri in 30 anni, ognuno con la propria (inutile) riforma

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