Se in mare si perde la nostra umanità

Se in mare si perde la nostra umanità

Il Quotidiano del Sud
Se in mare si perde la nostra umanità

Dalla tragedia di Steccato di Cutro al recente naufragio nella Locride: se in mare si perde la nostra umanità

“Inseguiremo gli scafisti per tutto il globo terracqueo”. Era il 10 marzo del 2023, Giorgia Meloni, con ai suoi fianchi i ministri Tajani e Salvini, pronunciò questa “storica” frase a Cutro durante una delle peggio riuscite conferenze stampa della storia comunicativa del governo italiano. Il Consiglio dei ministri era venuto nel comune della tragedia per approvare il decreto numero 20/2023 che recita: “Disposizioni urgenti in materia di flussi d’ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto dell’immigrazione irregolare”. Già in quei giorni lo chiamavano “decreto Cutro” senza quasi rendersi conto del fatto che in un Palazzetto dello Sport a Crotone c’erano già decine di bare, molte di bambini, donne e ragazzi. Alla fine sarebbero state 94 e non pochi corpi mancheranno per sempre all’appello.

Per la cronaca, da allora a oggi, qualche scafista l’hanno preso. Alcuni (come le due donne iraniane in attesa di processo in Calabria) non hanno mai guidato una barca di migranti, altri hanno fatto gli scafisti per pagarsi il “biglietto” di un viaggio della speranza. Quelli veri, i trafficanti di esseri umani a cinquemila euro a persona a viaggio, non mettono certo piede su una barca fatiscente e pericolosa. Loro se ne stanno in qualche locale alla moda di Istanbul a progettare investimenti e, si dice, a finanziare l’estremismo islamico. Non c’è bisogno di inseguirli né in terra né in mare. Sono lì, a portata di mano. Ma ricordate grandi retate di trafficanti?

La cultura che sta dietro alla tragedia di Cutro risale a ben prima del 2023. Agli anni (2018-2019) in cui Salvini imperversava al ministero degli Interni, bloccava navi delle Ong al largo o in porto, mostrava file di migranti scendere dalle stesse per essere portati nei centri di assistenza dai quali, giustamente (perché qualche pezzetto di diritto il nostro Paese ancora ce l’ha) scappavano e scappano per raggiungere le loro mete in Europa che non sono quasi mai l’Italia. Ma in quei due anni, un concetto è stato inculcato quasi a forza nella struttura dirigente della nostra Guardia Costiera: si esce a salvare i naufraghi solo se il pericolo è chiaro ed evidente. Altrimenti si resta in porto. Perché?
Perché lo Stato non può diventare come le Ong, non può aiutare e tollerare l’immigrazione clandestina. Da allora (e la tragedia di Cutro ne è stata l’esempio lampante) se la Guardia Costiera esce o non esce a salvare chi rischia la vita in mare è diventata una decisione affidata alla buona volontà dei singoli comandanti dei centri decisionali, al loro desiderio di sentirsi umani o al loro timore di apparire “come quelli delle ong”.

L’abbiamo visto a Cutro: esci tu? Esco io? Nessuno esce o ci si prova quando ormai è troppo tardi. E l’abbiamo rivisto in questi giorni in cui la tragedia si è consumata al largo (126 miglia Est-Sud-Est di Roccella Jonica). I corpi non sono arrivati sulle nostre spiagge e, forse, anche per questo abbiamo fatto prima a lavarcene le coscienze. I numeri imprecisi sulle salme recuperate (tanti, troppi, bambini) hanno contribuito a lasciare il tutto avvolto in una nebbia che sembra troppo vicina alla disinformazione. Ma, soprattutto, la questione di un allarme dato e tenuto lì fermo su qualche scrivania o in qualche computer fa pensare che, ancora una volta, qualcuno ha pensato se era corretto uscire al salvataggio alle prime avvisaglie o se era più giusto attendere sviluppi.

Te lo raccontano, guarda caso, molti grandi uomini della Guardia Costiera di una volta. Quella che aveva un solo ordine stampato nella mente, nei dispacci e anche nel cuore: si esce subito, si salva chiunque sia in pericolo, lo si cura e lo si rifocilla e, solo dopo, si comincia a valutare se quella persona ha infranto qualche legge. Proprio ieri, Salvini ha elogiato (giustamente) la Guardia Costiera per gli oltre duecento salvataggi effettuati nei laghi italiani. Vi risulta che, prima di uscire a recuperare una persona in difficoltà in un lago, si debba valutare da dove viene, dove va, se è in acque Sar se la situazione comporta violazioni di legge? Perché nei laghi no e nei mari sì? Perché chi cerca di venire in Italia via mare può essere salvato solo a certe condizioni?
Certo, la Guardia Costiera, spesso, interviene come ha sempre fatto senza valutare se la situazione è giuridicamente rognosa. Ma altre volte (può dipendere da molti fattori, compreso quello umano) il salvataggio ritarda, il dispaccio resta lì, la gente muore e la nostra umanità si deteriora.

Il Quotidiano del Sud.
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