Sergio Della Pergola: “Oggi non è più possibile fare una distinzione fra antisionismo e antiebraismo, questo causa l’antisemitismo”

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Qual è lo stato di salute della società israeliana? Cos’era Israele prima del 7 ottobre e cosa è oggi? Soprattutto, quali sono le prospettive future dello Stato Ebraico e quella della nascita di uno stato palestinese? Le risposte non sono state date da analisi geopolitiche o da procedimenti giudiziari. A soddisfare questi importanti interrogativi, è stato – di certo – il ragionamento storicopolitico sul tema ma in primo luogo, in nostro aiuto, è venuta la scienza. Quella dei numeri, ovvero la statistica. Perché questo è il lavoro di uno dei ricercatori e studiosi di demografia più importanti al mondo: il professor Sergio Della Pergola.

Cosa vuol dire oggi essere ebrei e che valenza ha l’antisemitismo

Nato a Trieste e di famiglia ebraica, Della Pergola è professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme e membro della commissione Yad Vashem per i giusti tra le nazioni. In passato è stato consulente politico del governo di Israele e tra i più importanti e apprezzati docenti degli Stati Uniti. Oggi, Della Pergola è stato a Napoli dove ha tenuto una conferenza sull’antisemitismo presso la Comunità Ebraica locale. Per l’occasione il professore, intervistato per l’Unità, ha presentato il suo ultimo libro edito da Il Mulino: “Essere ebrei oggi“.

Intervista a Sergio Della Pergola

Professore, lei nel 2007 ha pubblicato un libro dal titolo ‘Israele e Palestina – la forza dei numeri‘. Tra quelle pagine, dalla sua analisi scientifica, traspariva una sorta di monito nei confronti della politica israeliana. Oggi, dopo 17 anni, è uscito questo suo ultimo lavoro, “Essere ebrei oggi“. Quell’avvertimento secondo lei è stato colto?

La risposta è parziale. Innanzitutto la problematica, è attuale oggi come lo era allora. Naturalmente oggi siamo in una situazione che purtroppo è molto differente, si è molto acuita, ma la questione fondamentale è quella dell’esistenza di uno Stato d’Israele in un Medio Oriente molto eterogeneo che abbia una sua caratteristica fondante, cioè di essere uno Stato ebraico, dal punto di vista della cultura e della politica e che sia soprattutto democratico. E per essere tutto ciò, ovviamente, non è possibile che abbia una forma come un mélange di diversi stati e di diversi popoli. Soprattutto, la questione israelo-palestinese, è un tema che va risolto. In che modo? Dal mio punto di vista con una separazione politica. Questa era l’idea del libro pubblicato nel 2007. Un’opinione diffusa anche tra molti politici. In primo luogo il primo ministro Sharon. Quest’ultimo, nel 2005, deliberò e eseguì l’uscita totale di Israele da Gaza. La Striscia era uno dei territori occupati, insieme con la Cisgiordania, dopo la guerra dei sei giorni del 1967. Laddove c’è stato un accerchiamento e un attacco dei paesi arabi contro Israele, lo Stato Ebraico come nazione offesa, ha reagito – in parte per difesa, in parte in modo preventivo – riuscendo però a respingere l’attacco. Questo non è avvenuto solo la guerra dei sei giorni che si concluse con Israele che ha occupato vari territori tenuti precedentemente dall’Egitto, Gaza appunto, e dalla Giordania, cioè la Cisgiordania. Ariel Sharon, pur essendo ideologicamente un politico molto nazionalista, aveva ben in mente questa idea della prominenza, della necessità di Israele di essere se stesso e non due cose tra loro diverse. Lui lo dichiarò esplicitamente che Israele non poteva, ‘occupare e dominare un altro popolo’. Questo vuol dire che all’interno del pensiero politico dei partiti israeliani c’era una grossa fetta, non tutti, che capivano questo problema e che seguivano, tramite le vie della politica e non della ricerca, questo progetto di separazione. Quello che purtroppo è avvenuto dopo, però, è stata una grande delusione, perché con l’uscita da Gaza e anche da una parte della Giudea e della Samaria, cioè della Cisgiordania, in particolare l’area settentrionale, Sharon voleva preannunciare ancora un ritiro da altre parti dei territori. E questo sarebbe avvenuto con la costruzione di una società palestinese autonoma, anche economicamente più sviluppata, certamente con l’aiuto di potenze estere, sia del Medio Oriente sia occidentali, in modo da poter creare una convivenza fra Israele e il mondo politico palestinese. Purtroppo questo non è avvenuto. Immediatamente dopo, l’uscita, l’abbandono, lo sgombero di Israele e di Gaza, è cominciata l’aggressione di Hamas nei confronti di Israele. Hamas innanzitutto ha aggredito l’autorità palestinese uccidendo i funzionari palestinesi di Ramallah che dovevano governare anche Gaza, gettandoli dai grattacieli più alti di Gaza e quindi praticamente operando una secessione dall’autorità palestinese e quindi creando un’entità politica secessionista ma di fatto autonoma. Secondo, l’inizio di una pioggia di razzi e di missili da Gaza verso le città israeliane e la popolazione civile israeliana. Questo certamente non era nel progetto di ritiro attuato da Sharon e non può essere il progetto di nessuno: ritirarsi da una parte dalla quale poi cominciano a piovere missili. Lì, dunque, è avvenuto – purtroppo – un fenomeno anche di ripensamento in Israele. La sinistra israeliana e anche una gran parte della democrazia israeliana che era favorevole alla separazione e all’autonomia palestinese si trova oggi, dopo molti anni di conflitto, a essere molto più esitante. E una parte, francamente molto estrema dal punto di vista del nazionalismo, pretende in teoria addirittura di rioccupare quei territori, cosa che certamente non è nei piani di nessuno. Ecco quindi come purtroppo da un piano che aveva delle prospettive di pace molto serie è emersa una situazione che poi è degenerata ed è arrivata alla strage del 7 ottobre che è un fatto senza precedenti nella storia“.

Lei è stato molto duro con l’attuale premier Netanyahu e negli ultimi anni la società italiana è apparsa abbastanza lacerata: ci sono state delle manifestazioni massicce contro la riforma della giustizia e cinque elezioni in pochi anni. Secondo lei come sarà possibile rimettere insieme tutti i pezzi?

Il fatto è questo, che con l’elezione del governo Netanyahu nel novembre del 2022 si è creata una maggioranza parlamentare ma non una vera maggioranza tra gli elettori. Succede che i metodi elettorali sono a volte un po’ perversi e quindi Netanyahu e la sua coalizione, con il 47% dei voti, ha però avuto un buon margine di conquista dei seggi in Parlamento, intorno al 55% dei seggi. La democrazia funziona in questo modo, il metodo elettorale è creare i governi che sono stati eletti secondo la legge e quindi sono assolutamente legittimi. Però non si può parlare di una grande maggioranza che segue Netanyahu. Immediatamente, però, Netanyahu ha fatto un errore a mio modesto parere madornale e cioè ha voluto proporre una riforma del sistema giudiziario pensando di avere una grande maggioranza ma in realtà non avendola all’interno della società e proponendo un sovvertimento di quell’ordine costituzionale israeliano che prevede, come in molte democrazie, la chiara separazione fra i poteri, l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario, in cui il giudiziario ha chiaramente autonomia e indipendenza. La proposta era di imbrigliare il giudiziario e di farlo diventare una specie di filiale dell’esecutivo. Questo, però, ha suscitato una protesta civile molto forte, certamente superiore a quello che Netanyahu e il suo governo si aspettavano. Israele, a livello di società, ha dimostrato di essere una società civile attenta e cosciente di quelle che dovrebbero essere le competenze dei diversi organismi costituzionali e quindi si è creata una spaccatura che si è vista anche con dimostrazioni per le strade molto molto numerose e ha creato l’impressione di un Paese oramai irrimediabilmente diviso. Tutto ciò ha influenzato anche la strategia dei di Hamas e anche degli altri nemici di Israele, come Hezbollah e soprattutto dell’Iran. Tutti hanno pensato che Israele, mai diviso, era diventato un’entità debole e fallimentare e quindi facilmente attaccabile. Questo è stato un errore gravissimo, perché nel momento dell’attacco del 7 ottobre, la società israeliana si è del tutto ricompattata. Un conto sono le divisioni di giudizio politico che ci sono, un altro conto è il giudizio sull’esistenza del Paese che non è discutibile e quindi tutte le parti si sono ricongiunte. C’è stato un necessario richiamo alle armi generale del servizio della riserva, centinaia di migliaia di giovani, i quali sono accorsi indipendentemente dalle idee politiche pro o contro, perché chiaramente il Paese andava difeso. Quindi Israele si è riunito nel momento del bisogno, anche se le differenti opinioni sul sistema giudiziario non sono ancora risolte e in prospettiva potrebbero anche risorgere. In prospettiva chiaramente Israele dovrà andare a nuove elezioni a un certo momento e in questo momento il governo Netanyahu ha perso molto, lo dicono i sondaggi. L’attuale esecutivo è lontanissimo dalla maggioranza e quindi oggi le elezioni darebbero un risultato completamente differente. Però per arrivare alle elezioni ci sono delle procedure costituzionali. In Israele, non come in Italia, il Presidente della Repubblica non ha il potere di sciogliere il Parlamento che quindi si può solamente autosciogliere. Chiaramente i parlamentari non ha nessun interesse a correre il rischio di non essere rieletti e quindi si andrà avanti. In teoria il limite sarebbe novembre del 2026. Io non credo che si arriverà fino ad allora, ma vediamo come si comporterà la politica israeliana e quali scelte saranno fatte“.

Lei ha usato il termine ‘costituzionale’ e in passato ha parlato, quasi come di una necessità per lo Stato di Israele, di avere una costituzione

Sì, perché tecnicamente Israele non ha una Costituzione, ma è un po’ una finzione. Di fatto Israele ha una serie di norme che hanno valore costituzionale, cioè non esiste proprio un corpus uno che si chiami la Costituzione, ma esistono dei parametri che vanno al di là della legge ordinaria e quindi determinano certe e specifiche procedure. Non fin dall’inizio, ma alla luce degli ultimi sviluppi, sono arrivato alla conclusione che è necessario avere una Costituzione formalmente scritta e decretata, perché questo dà maggiore chiarezza e non solo colma riverse lacune che oggi ci sono nel sistema. Quindi è necessario fare questo. Ma è anche necessario fare un’altra operazione. Esiste una bellissima dichiarazione di indipendenza dello Stato d’Israele che dà i principi normativi dell’entità, degli obiettivi, che però non ha valore di legge. Questa dichiarazione di indipendenza dovrebbe assumere valore di legge e diventare in pratica l’articolo 1 o il capitolo 1 della Costituzione, questo darebbe maggiore chiarezza, in cui si parla di democrazia, si parla di diritti e si parla dell’uguaglianza tra i cittadini, cioè si stabiliscono i principi fondamentali della democrazia“.

Perché secondo lei c’è sempre un solito e diffuso sentimento antisraeliano e come questo è percepito dalla società israeliana? In tanti dal 7 ottobre stanno manifestando per cercare di spingere il governo a un accordo affinché siano liberati gli ostaggi. È come se gli israeliani stessero dicendo basta, siamo stanchi della guerra e di essere visti come i cattivi della situazione

Dobbiamo vedere le cose dall’esterno. Quello che succede in Israele l’abbiamo già discusso e naturalmente esistono diversi modi di concepire lo Stato ma comunque questa è una questione degli israeliani che comunque non prescinde dal fatto che Israele è una realtà che non può essere messa in discussione. Quando qui in Europa, in Italia, in America si dice ‘la Palestina sarà libera dal mare fino al fiume’ vuol dire eliminare lo Stato di Israele e questo evidentemente non è ammissibile. Il problema, come lo vedo io, e non tutti concordano, ma io nel mio libro ne parlo e lo ritengo abbastanza dimostrato empiricamente, è che oggi non è più possibile creare questa distinzione fra antisionismo e antiebraismo o antisemitismo. Sono due parti talmente interconnesse, esiste una compenetrazione fra le parti, per cui negare l’uno vuol dire anche negare l’altro e quindi fatalmente si arriva all’antisemitismo. Questo ci riporta molto indietro alla fenomenologia dell’antisemitismo che in parte è nota e in parte ha delle linee portanti molto costanti e molto coerenti che additano l’ebreo per una serie di circostanze. Ma, attenzione, va aggiornato questo discorso in due modi. Al di là della negazione dell’ebreo come uguale e quindi di pari diritti, fatto abbastanza ovvio direi che pochi negherebbero, c’è il fatto della memoria della Shoah. Si nega a volte all’ebreo il diritto di avere una sua propria memoria della Shoah e questo chiaramente non è ammissibile perché l’ebreo è stato l’oggetto della persecuzione. L’Olocausto è l’elemento più diffuso e comune tra gli israeliani, quindi la memoria della Shoah è un fatto indistinguibile. Terzo, il diritto di un popolo di avere uno stato sovrano. Questo stato sovrano deve comportarsi bene e ovviamente deve avere dei parametri di accettabilità nel contesto del diritto internazionale. Però non può essere negato. Allora chi lo nega opera un’azione antisemita e quindi il riflusso emotivo ci porta a questa conclusione, questo tipo di dimostrazioni hanno una componente antisemita cosciente o latente, ma c’è“.