Strage di Brescia: con le bombe la destra voleva fermare la sinistra

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Me lo ricordo quel mese di maggio. Il giorno 13, che era lunedì, il divorzio trionfò al referendum, e la Dc di Fanfani fu travolta e quasi delegittimata.

Il giorno 23, che era un giovedì, le Brigate Rosse, nate da poco e ancora non molto conosciute, balzarono al centro della battaglia politica ottenendo la promessa del rilascio di alcuni detenuti di estrema sinistra in cambio della liberazione del magistrato Mario Sossi che avevano rapito un mese prima.

E il giorno 28, che era un martedì, una bomba squarciò la tranquillità di un comizio sindacale a piazza della Loggia, nel cuore della Brescia operaia e di sinistra, e uccise otto persone. La bomba era nascosta in un cestino.

Esplose alle 12 e 10. Morirono cinque insegnanti, due operai e un pensionato. Ci furono cento feriti. La strage di Brescia è il secondo grande capitolo dell’attacco fascista, dopo la strage di Piazza Fontana del 1969.

Nel frattempo c’erano stati anche altri attentati. Quello di Peteano contro i carabinieri, e la bomba contro Rumor alla questura di Milano del 1973. Molti altri ce ne saranno, fino alla strage di Bologna del 1980. E alla strage di Natale del 1984.

La strage di Brescia è importante per molte ragioni. Perché avvenne in quella città che era un po’ il simbolo della avanguardia operaia più politicizzata, non solo di fede comunista ma anche di forte militanza politica e religiosa cattolica e democristiana.

E perché avvenne in un momento decisivo della battaglia politica. Mentre la spinta formidabile del 1968-69, studentesco e operaio, stava per dare dei frutti molto importanti in termini di cambiamento delle leggi e dello Stato. C’era stato il contratto dei metalmeccanici del ‘72, che fu una specie di rivoluzione.

Non solo salari, non solo salute, ma istruzione. L’invenzione delle 150 ore all’anno – che credo fu un colpo geniale di Bruno Trentin – a disposizione degli operai nell’orario di lavoro, per andare a scuola, fu un salto clamoroso: sia in termini di idee e di diritti (era una misura che imponeva agli imprenditori un ordine quasi socialista) sia perché ebbe come conseguenza la fine dell’analfabetismo, che era ancora molto diffuso.

E poi erano in vista alcune riforme che maturarono negli anni successivi, destinate a stravolgere la struttura sociale del paese: riforma sanitaria, punto unico della scala mobile, stato di famiglia, patti agrari, equo canone, riforma psichiatrica.

E infine l’aborto, che assestava un altro colpo mortale alla vecchia Dc pacelliana e bigotta. Del resto tutta l’area cattolica stava spostandosi in modo lento e massiccio verso sinistra.

Spinta dal Concilio, dalla “Populorum progressio”, dai preti operai, da don Milani, da Balducci, da Mazzi, da Franzoni, e da decine di migliaia di parrocchie.

Il combinato disposto dello spostamento dello spirito pubblico cristiano e della forza che esprimeva il Pci stavano costruendo un riformismo incredibilmente robusto e avanzato che già delineava i confini di un paese teso al socialismo. Non c’è mai stata in Italia una forza riformista così potente e decisa.

La borghesia reagì. In diversi modi. Una parte della borghesia cercò il compromesso. Iniziò a concedere molto. Sia sul piano sociale che su quello ideale.

Il patto sul punto unico di scala mobile, molto oneroso per gli imprenditori, fu firmato con la stilografica e con la mano di Gianni Agnelli. Un’altra parte della borghesia – quella che controllava le leve del potere profondo e gli apparati dello Stato – decise il contrattacco.

E aprì le porte ai fascisti e ai servizi segreti. Nacque così la strategia della tensione. L’obiettivo era quello di fermare la corsa verso il socialismo. Ieri Mattarella lo ha detto in modo netto.

Con una sola “distrazione”. Non ha spiegato che quelle stragi sono state chiamate stragi di Stato non perché fossero contro lo Stato (erano contro le riforme) ma perché erano eseguite su ordine e con la complicità di apparati dello Stato.

La strategia della tensione fallì. L’Italia continuò ad avanzare, proprio perché il Pci non era solo ma era spalleggiato da una parte molto forte e lucida del mondo cattolico. Il crollo e la sconfitta della stagione riformista ci fu diversi anni dopo.

Quando cambiò la situazione internazionale. Vinse Reagan, fu spazzata via l’ipotesi del compromesso tra moderati e socialisti, che era anche, in fondo, nella strategia di Nixon.

Il sogno rosso cadde. Il grande riformismo italiano battè in ritirata. Oggi ogni tanto viene riproposto. Ma con il Dna invertito: si dice che il riformismo sia il ritorno ai valori tradizionali di patria, concorrenza e capitalismo.