Sudan, il genocidio che non interessa a nessuno: così nei prossimi giorni moriranno di fame 750mila persone

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Ieri l’IPC (Integrated Phase Classification), ha pubblicato il suo rapporto sul Sudan. Secondo l’IPC, oltre la metà della popolazione sudanese, e cioè 25,6 milioni di persone, sta vivendo una grave crisi alimentare. Tra queste, 755.000 persone si trovano oggi in situazione di carestia e potrebbero morire di fame già domani. Altri 8,5 milioni di persone (18% della popolazione) stanno affrontando un’emergenza alimentare con il rischio di scivolare nelle stesse condizioni di carestia. L’IPC è un sistema di monitoraggio globale del livello di insicurezza alimentare e carestie nei paesi, guidato dalle Nazioni Unite (principalmente dalle agenzie FAO e WFP), Alla luce di questi numeri spaventosi, possiamo dire che il Sudan sta affrontando la più grande carestia che il mondo abbia visto negli ultimi quarant’anni. La domanda è: perché in Italia non ne parla nessuno?

In breve, nell’aprile del 2023 è scoppiata una guerra civile tra le Forze Armate Sudanesi (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF), le due principali fazioni della giunta militare al potere in Sudan. Storicamente, il Sudan non è nuovo a forti instabilità politiche, guerre civili e carestie. Nel mondo, le carestie sono per lo più causate dai conflitti, ossia dai governi e dagli interessi politici, e non dall’assenza di cibo. Il cambiamento climatico e le crescenti siccità possono provocare picchi di insicurezza alimentare, ma difficilmente creano da soli le condizioni per innescare una carestia. Sono i governi a causare le carestie. I governi coinvolti, spesso, come nel caso sudanese, affamano intenzionalmente le popolazioni come arma per vincere le guerre, ma allo stesso tempo hanno bisogno degli aiuti umanitari per sostenere le truppe militari. Questa situazione genera quelle che sono chiamate “emergenze politiche complesse” che spesso si protraggono nel tempo con la responsabilità di tutti gli attori coinvolti a scapito delle popolazioni locali. Da quattordici mesi, la gestione politica e logistica degli interventi umanitari in Sudan è molto complessa, perché per ragioni meramente militaristiche, i corridoi transfrontalieri sono stati chiusi, i convogli delle Nazioni Unite che trasportavano cibo sono stati razziati, l’accesso alle persone più bisognose e alle regioni più marginalizzate è stato oggetto di difficili negoziati tra le agenzie umanitarie e chi controlla le regioni.

I prezzi delle materie prime e del trasporto sono schizzati alle stelle (anche a causa della guerra in Ucraina) e reperire personale e organizzazioni locali disponibili a rischiare la propria vita per fornire aiuti alimentari è difficile. Basti pensare che al momento tutto il personale dell’ONU in Sudan è stato rilocato per motivi di sicurezza da Khartoum a Port Sudan, che si trova a Est del Paese, lontanissimo dalle zone più bisognose come il Darfur ed in mano alla fazione del SAF, a cui le agenzie umanitarie devono pagare prebende di ogni tipo per non essere cacciate dal Paese.
Ci si potrebbero chiedere: e che c’entriamo noi italiani con tutto questo? Sembra ovvio che le due fazioni in guerra sono le principali responsabili della catastrofe attuale. Tuttavia, è stato argomentato da alcuni analisti politici in un recente articolo per il New York Review of Books del 23 giugno, che la scelta dell’ONU di prendere posizione nel conflitto civile sudanese, riconoscendo la fazione del SAF ha solo peggiorato la situazione. Infatti è il SAF che decide se gli operatori umanitari possono accedere alle aree controllate dalla fazione del RSF. Una situazione simile è già avvenuta in Etiopia con la guerra civile in Tigray che ha di fatto portato ad un fallimento della risposta umanitaria e la morte di oltre 500,000 persone.

Ciò che l’eccellente articolo del New York Review of Books porta alla luce è l’importante dimensione internazionale e geopolitica del conflitto sudanese. A livello geopolitico, dietro alla fazione del SAF ci sono Egitto, Iran e Russia; e con la fazione del RSF ci sono gli Emirati Arabi Uniti dunque gli Stati Uniti. Finora gli Stati Uniti non hanno esercitato una pressione significativa sugli Emirati Arabi Uniti perchè tolgano il loro supporto alla fazione del RSF. L’amministrazione Biden ha considerato il cessate il fuoco in Sudan meno importante che mantenere gli Emirati Arabi Uniti dalla parte degli Stati Uniti, contro l’Iran e a favore di Israele. In questo teatro di guerre, carestie e tragedie umanitarie, per compiacere l’Europa e dunque gli Stati Uniti, l’Italia è ancora una volta tragicamente vassalla, co-responsabile della morte di milioni di donne e uomini neri, africani e musulmani, all’interno del progetto di alleanza atlantica, che vanta le radici culturali dell’Illuminismo, ma evidentemente è applicato solo ai bianchi occidentali. Una co-responsabilità che condividiamo con i paesi del G7, i quali in un contesto mondiale di crescenti conflitti e bisogno di assistenza umanitaria, nel 2023 hanno raggiunto il record negativo di allocazioni finanziare bilaterali per l’assistenza ufficiale allo sviluppo dal 1973.

*Insegna “Operazione e Sviluppo” all’Univesità Roma Tre