Suicidio assistito legale, i requisiti irragionevoli: non puoi morire perché (forse) non hai sofferto abbastanza

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1. Facciamo un test. Immaginate di essere imprigionati in un corpo piegato da una malattia irreversibile, causa di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili, e di maturare – in piena coscienza e assoluta libertà – la scelta di porre fine a una vita che, per voi, non è più tale.

La vostra volontà è di morire dignitosamente, circondati dagli affetti più cari. Eppure, non potrete farlo se la patologia non vi costringe ancora a ricorrere a trattamenti di sostegno vitale.

Dovrete attendere, infatti, il progredire della malattia fino alla totale inautonomia, quando sarà la ventilazione assistita o l’idratazione artificiale o l’alimentazione forzata a tenervi in vita.

O quando – ma l’ipotesi è giuridicamente incerta – la vostra sopravvivenza dipenderà direttamente da terapie farmacologiche o dall’assistenza di personale medico o paramedico. Solo allora, potrete chiedere l’accesso alla procedura di morte assistita che il Servizio sanitario è tenuto a prestarvi. Non prima.

Rassegnatevi: dovrete salire tutto il vostro penosissimo calvario, stazione dopo stazione, fino a quando finalmente la dipendenza da un supporto vitale sarà il «passo obbligato tra la vita e la morte». Vi sembra ragionevole?

Non serve l’aruspice per sapere la risposta che i più darebbero per sé stessi. In questo caso, il buon senso coincide con il senso comune, a dimostrazione che le scelte di fine vita (chi deve decidere, e quando) sono un tema divisivo per la politica, ma non per la gente in carne e ossa.

2. Proprio di ciò si discuterà, il 19 giugno, a Palazzo della Consulta, per impulso del Gip del Tribunale di Firenze: è costituzionalmente legittimo che la non punibilità di chi agevola il suicidio altrui sia subordinata alla circostanza che la persona aiutata a morire sia «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale»? Questo, infatti, prescrive l’art. 580 c.p., dopo la sentenza n. 242/2019, pronunciata nel noto caso “Cappato-DJ Fabo”.

La nuova quaestio nasce da una vicenda in cui la persona aiutata a morire, colpita da sclerosi multipla in stadio avanzato, non dipendeva da alcun supporto salvavita.

Il che non consente di scriminare penalmente la condotta di Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese che, avendo cooperato e partecipato al trasferimento del malato in una clinica elvetica (dove poi si è tolto la vita), sono imputati per il reato di agevolazione al suicidio. È il loro giudice, cui si sono autodenunciati, a sollevare i dubbi di costituzionalità.

3. Dipendere da un trattamento di sostegno vitale per poter accedere al suicidio medicalmente assistito è, nel panorama comparato, un unicum legislativo e giurisprudenziale. E si capisce bene il perché.

Tale condizione, infatti, abbandona all’arbitrio del caso il destino del malato condannato da una prognosi infausta. Discrimina, nelle possibili scelte “ultime”, tra chi è mantenuto in vita artificialmente e chi, malato terminale, non lo è (o non lo è ancora).

Induce quest’ultimo ad accettare trattamenti sanitari invasivi, al solo scopo di poter poi accedere legalmente al suicidio assistito. Pone al medico, davanti a simili richieste, un vertiginoso dilemma etico e deontologico.

Dunque, per coloro che rifiutino l’alternativa sempre possibile della sedazione profonda, non esistono vie d’uscita, salvo non decidano – ottenendolo – di farsi intubare.

Discriminati due volte, dalla sorte e dal diritto, non resta loro che la soluzione, crudele, del suicidio in completa solitudine. O quella, illegale, di pietire un’eutanasia clandestina.

O quella, impervia, di darsi la morte in esilio (purché siano in grado di viaggiare oltreconfine e abbiano disponibilità di denaro e di tempo di vita sufficienti), esponendo a gravi conseguenze penali chi fosse disposto ad accompagnarli.

Scopriamo così che la Consulta, circoscrivendo con eccessiva prudenza il divieto assoluto dell’art. 580 c.p., ha inserito nell’ordinamento una norma irragionevole.

4. È un’irragionevolezza confermata dalla prassi successiva alla sua sent. n. 242/2019. In ambito scientifico, infatti, non esiste condivisione su cosa sia un «trattamento di sostegno vitale».

Accade così che l’accertamento di tale requisito da parte delle Asl – e, talvolta, della medesima Asl – dia esiti opposti a discrezione della commissione medica interpellata. Una discrezionalità che si fa arbitrio, quando differenzia situazioni cliniche analoghe.

L’incerta categoria di «trattamento di sostegno vitale» si ripercuote anche sull’esatta definizione dell’area di punibilità per l’aiuto al suicidio, ridefinita dalla sent. n. 242/2019. Qui ad essere violata è la legalità dei reati, che esige una precisa descrizione delle condotte penalmente rilevanti, a evitare l’incertezza del diritto e l’arbitrio dei giudici in sede applicativa.

Di più. Nella rilettura della Consulta, l’art. 580 c.p. svolge il compito di tutelare le persone vulnerabili, scongiurando il pericolo che la decisione di togliersi la vita sia presa sotto interferenze di qualsiasi natura.

A tale scopo, però, decisivi sono gli altri requisiti introdotti dalla sent. n. 242/2019: l’irreversibilità della patologia, l’intollerabilità delle sofferenze, la libera autodeterminazione del malato, l’ottemperanza alle procedure per il loro accertamento.

Rispetto a ciò, la dipendenza da un supporto vitale è un “di più” sproporzionato (perché incongruo alla ratio della tutela penale) e contraddittorio (perché antepone un evento incerto e futuro al requisito già attuale delle sofferenze del malato, obbligato a una prolungata e penosissima attesa della fine). Torno a chiedere: vi sembra ragionevole?

5. Eppure, a difesa della norma censurata, si è schierato in giudizio un plotone di amici curiae. Sono ben dodici le associazioni che hanno depositato memorie in replica all’ordinanza del Gip di Firenze. Daranno man forte al Governo il quale – c’era da dubitarne? – chiede che la quaestio venga respinta al mittente.

Ho avuto modo di leggerle, traendone un senso di inquietudine. Fossi recluso in un corpo malato, sofferente, senza speranza, proverei autentica collera davanti ad alcuni lapsus rivelatori.

Come l’affermata necessità di ancorare l’accesso al suicidio assistito «a un giudizio oggettivo di gravità delle condizioni di vita del malato e di prossimità naturale alla morte» e non alla «mera percezione soggettiva dell’aspirante suicida».

O l’idea secondo cui si debba essere certi che, per il malato, «non esistono altre possibilità che la vita di quest’ultimo possa svolgersi in modo che la società ritiene accettabile».

O l’affermazione secondo cui essere obbligati a far ricorso ai trattamenti salvavita «non lede la dignità umana ma, al contrario, la preserva» nella sua oggettività. O il denunciato pericolo di un «allargamento incontrollato» dell’aiuto al suicidio (quasi fosse un futile desiderio edonistico, oggi di moda).

Il tutto – va da sé – in nome del «diritto “sacro” e indisponibile della vita» (degli altri). Si chiama paternalismo giuridico: categoria che dovrebbe essere estranea a una democrazia liberale, di cui contraddice il pluralismo etico e la pari dignità sociale tra le persone.

Un paternalismo che si mostra privo di empatia laddove si spinge a dire che la necessità di un sostegno vitale serve «a qualificare in peius la patologia ed a denotare la vicinanza di chi ne è afflitto alla morte».

Non importa che ciò acutizzi le sofferenze già insopportabili del malato, costretto così a prolungare il suo inferno terreno. Cosa sarà mai? Dovrà soltanto pazientare un pochino.

6. In tema di fine vita, da anni il Parlamento rinvia ogni decisione. La Corte potrebbe emularlo, dichiarando inammissibile l’iniziativa del Gip di Firenze, come richiedono Governo e diversi amici curiae.

Qui entrano in gioco le regole del processo costituzionale, adoperabili come via di fuga per scansare il merito di una quaestio giuridicamente e politicamente spinosa. È un nodo decisivo: meriterà su queste pagine una riflessione ad hoc, prima dell’udienza del 19 giugno.