Tre frasi del padre, il saggio di Marco Fortunato: appunti per sopravvivere

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“Il problema fondamentale è che l’io-l’uomo agisce, non può non agire; e nella sua azione è contenuto il germe dell’autoaffermatività e quindi della violenza… ogni fare è un fare qualcosa a qualcun altro, coinvolge e incide su qualcuno o qualcos’altro da quello che lo compie”. Questo enunciato lo traggo da Tre frasi del padre. Il potere. L’io. La malinconia (Nave di Teseo) di Marco Fortunato, il più bel libro di filosofia morale che mi è capitato di leggere recentemente. E se “agire” coincidesse con prevaricare? Domanda ineludibile, specie per chi – come me – ritiene che l’impegno civile sia uno dei nostri maggiori doveri. L’estremismo filosofico di Fortunato mi tenta anche se non riesco a condividerlo del tutto.
Prima di tornare su questa domanda riassumo velocemente il contenuto del libro. Fortunato “scrive bene”, ha cioè una prosa riflessiva e “gentile”, argomentante e insieme ospitale. Per la ragione che, al contrario dei Cacciari, Esposito, Recalcati, etc. noi sappiamo sempre dove esattamente lui si trova: un pensiero emotivo e partecipe, capace di mostrare il nesso tra speculazione filosofica ed esistenza. Qui prende le mosse da tre frasi che il padre, morente – ha sempre vissuto con distacco ma in questo momento “cerca vita” – ripeteva spesso. Sono queste: 1 “Se mai dovesse avvenire un incontro fra l’uomo e Dio, sarebbe Dio a dovere rendere conto all’uomo e non l’inverso”; 2 “Non sono mai riuscito a capire perché, quando si affrontano le rappresentative di diversi Paesi, uno sia tenuto a parteggiare per quella del proprio”; 3 “L’uomo non potrà mai essere felice, perché anche nei momenti di più grande gioia persiste in lui un fondo di malinconia”. Intorno a queste tre frasi costruisce un ragionamento denso e un mosaico di rimandi e citazioni. Ne risulta una avventura intellettuale piena di spirito socratico e di pietas filiale. Piuttosto che ripercorrere la trama del suo ragionamento (impresa vana) e accogliendo la forma di saggio-conversazione del libro – più che Montaigne trattato sistematico – tento ora di commentare le frasi del padre (in fondo ogni lettore è implicitamente invitato a farlo).

1 Certo, per noi Dio è in un certo senso inadempiente: se è infinitamente buono perché ha creato delle specie animali che devono nutrirsi di altre specie (e in alcuni casi divorandole vive)? Era proprio necessario? Perché ha costruito un mondo che si regge sull’assassinio? Anche la morte più lieta è sempre come un venire assassinati. Insomma: dovrebbe scusarsi! Tutto ciò però secondo il nostro punto di vista. Può accadere che nel corso della vita uno assuma per un attimo un altro punto di vista e percepisca invece nella necessità del tutto un qualche ordine eterno, la perfezione spinoziana di tutto quello che esiste. E poi: ciò che avviene obbedisce comunque a un limite: il terremoto più devastante, o il dolore fisico più intollerabile, a un certo punto finisce. La forza, ovunque sovrana, è sottomessa a un limite misterioso. Tutto si tiene. Per caso se noi rifacessimo la Creazione la faremmo migliore (come ad esempio era insensatamente convinto Aldo Capitini)? È possibile e auspicabile sradicare il male dal mondo? Nel Deuteronomio Dio dice a Mosè di scegliere tra la vita e la morte, non tra il bene e il male: e se sceglie la vita sa che la vita si nutre di altra vita. Se pensiamo, che so, a una tigre improvvisamente vegetariana, che risparmiasse la sua antilope, ciò costituirebbe l’immagine di una natura per niente utopica ma tristemente depotenziata.

2 Giusto! Io spesso tifo, segretamente, contro la mia nazionale di calcio! Non mi va di “appartenere”, di essere identificato con una collettività imposta e data per scontata, e comunque se è proprio inevitabile allora voglio una comunità elettiva, che posso scegliere liberamente, ad esempio la comunità dei vivi e dei morti che da sempre forma la letteratura del nostro pianeta. Sento più “fraterno” Kafka dei fratelli d’Italia odierni. Le uniche patrie belle sono quelle che ci scegliamo.

3 Sì, tutto è effimero e caduco, di qui la malinconia, una felicità sempre intorbidata. Però è anche vero che nell’istante in cui siamo felici può succedere che ci dimentichiamo della caducità: quando riusciamo a vivere la pienezza della vita allora la morte (il diavolo) fugge via, il negativo si dissolve come nell’incantesimo di una fiaba. Inoltre: va bene, come osserva Leopardi, tutti veniamo al mondo con una promessa di felicità che sarà poi disattesa. Ma quando e da chi ci sarebbe stata fatta questa promessa di felicità? Già la promessa implica un’idea di futuro, dunque ci aliena il presente, dove invece si gioca tutto. Il Vangelo di Giovanni ci avverte di non aspettarci niente dal futuro. L’altro mondo è questo mondo. Tutt’al più ci potrebbe chiosare con uno dei paradossi di Kafka: questa vita è il paradiso, ma lo scopriamo proprio nel momento in cui ne veniamo espulsi (quasi uno zen chassidico).

E ora andiamo all’interrogativo sull’agire in sé negativo. Sì, posso concedere che in generale l’etica è più dalla parte dell’esitazione, della astinenza, dell’indugiare, e non della decisione e dell’agire. Un poco diffido di chi vuole riparare il mondo, dei politici che intendono governare cose e persone, le quali invece sono ingovernabili. Il ritmo segreto della realtà sfugge perfino ai potenti. Mi resta però un dubbio: dato che anche non-agire è una forma dell’agire come si può uscire da tale aporia? Rinunciare ad agire significa infatti lasciare che ad “agire” siano gli altri (la realtà è sempre “agita” da mille cause). Possiamo avere idee diverse sull’Ucraina ma se non agisco a sostegno dell’Ucraina (col sostegno militare o attivandomi per la pace) lascio il campo ai prepotenti, ben intenzionati ad agire. O anche: se non agisco nell’aiutare un amico devastato da un lutto lascio che la depressione agisca indisturbata su di lui (una bella responsabilità!).
Fortunato auspica che il nostro mondo fondato sulla forza-potenza si trasformi “in un reame dell’inutile nel quale, come suggerisce il mirabile aforisma Sur l’eau di Minima moralia di Adorno si vivrebbe principalmente soltanto giacendo sull’acqua e guardando quietamente il cielo”. Bella questa idea di felicità, che riguarda più l’abbandonarsi, il quieto contemplare, che l’ossessione performativa e uno sbuffante iperattivismo. Aggiunge che l’immagine più vicina a una utopia concreta è per lui quella del conversare, del parlare con gli altri: “un mondo del puro dire in cui non si produca alcunché ma solamente e continuamente si parli”. Alla obiezione che anche conversare può nascondere qualche forma di prevaricazione risponde che ogni dialogo platonico si conclude nella sospensione. Una via d’uscita potrebbe essere quella induista di un agire privo di calcolo, non finalizzato (comunque il fine ci sfugge), senza l’ansia di vincere e senza il pathos del competere (non ci siamo anche un po’ stufati di farlo da una vita?): l’indifferenza all’esito, l’ “agio sovrano dell’inutile”. Stavolta il Padre, con il suo stile del ritrarsi, ci indica un modo per decostruire qualsiasi potere.

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