Tutte le balle raccontate ai ragazzi degli immigrati

RMAG news

Chi è oggi un cittadino italiano? Chi merita di diventarlo? In base a quali requisiti? Sono questi gli interrogativi di fondo cui bisogna preliminarmente rispondere per affrontare il delicato tema dell’attribuzione della cittadinanza ai figli degli immigrati extracomunitari. Delicato non solo perché politicamente controverso ma perché incide sui rapporti sociali di tali minori con gli altri coetanei, a cominciare dai loro compagni di scuola. Com’è noto, nel nostro Paese prevale il criterio della discendenza diretta (ius sanguinis): si è italiani perché figli di italiani.

L’obiettivo è evidente: preservare l’identità nazionale, cioè quell’insieme di legami etnici, culturali, linguistici, storici, religiosi che accomunano un insieme di persone, anche se non residenti in Italia, come nel caso degli emigrati all’estero. Questa fu la scelta fatta nel 1992 (legge n. 91): favorire l’acquisizione della cittadinanza italiana dei figli degli immigrati (c.d. oriundi) che, a causa del divieto di doppia cittadinanza, avevano dovuto rinunciarvi; di contro penalizzare gli extracomunitari, che per acquisire la cittadinanza italiana devono legalmente risiedere non più, come prima, per cinque anni ma per dieci. Tale scelta di fondo è oggi palesemente inadeguata.

Tutti ricordiamo il motto dei coloni britannici durante la rivoluzione americana: nessuna tassazione senza rappresentanza (no taxation without representation)! Ebbene ciò è esattamente quanto accade oggi: vi sono extracomunitari regolari che pagano le tasse ma non hanno rappresentanza politica mentre, di contro, vi sono gli italiani all’estero che votano per il nostro Parlamento anche se non pagano le tasse in Italia. Italiani all’estero, peraltro, di seconda e terza generazione che sono italiani benché dell’identità nazionale italiana, a cominciare dalla lingua, non abbiano più nulla. Ma soprattutto l’attuale legge sulla cittadinanza è storicamente superata perché l’Italia è oggi terra più d’immigrazione che d’emigrazione. Se nel 1992, gli extracomunitari residenti nel nostro paese erano appena 600 mila, oggi sono circa 5 milioni. Si tratta di persone che fanno parte della popolazione italiana per le quali l’essere italiani non è un’eredità ma una scelta di vita rinnovata ogni giorno.

Persone che, come detto, lavorano in Italia, vi pagano le tasse, condividono i principi e valori della nostra Costituzione, senza con ciò dover rinunciare alla loro identità nazionale, che anzi la nostra Repubblica tutela come espressione del pluralismo. Ciò nonostante, per costoro diventare italiani è volutamente un percorso lungo e accidentato proprio perché altererebbero l’identità nazionale, tanto più quando dai tratti somatici e dal colore della pelle diversi. Un argomento dalle evidenti venature razziste visto che gli italiani oggi sono il frutto di secoli d’integrazione con popolazioni straniere, dagli arabi ai normanni. Quando si dice che l’attuale legge sulla cittadinanza funziona benissimo perché siamo il Paese che ne concede più di tutti gli altri si dice una cosa non del tutto vera, sia perché, trattandosi di un provvedimento discrezionale, bisognerebbe precisare quante domande vengono respinte e per quali motivi (oltreché aggiungere i casi di revoca, specie quando determinino la riduzione dello straniero allo stato di apolide, in violazione della Convenzione Onu del 1961), sia perché ciò che importa è anche quando la cittadinanza viene concessa.

Ebbene, a tutti gli operatori del settore è arcinoto che quasi mai la decisione sulla cittadinanza per concessione o a seguito di matrimonio avviene entro i tre anni dalla presentazione della richiesta previsti come massimo dalla legge (art. 9-ter.1 l. 91/1992). Tali ritardi incidono ovviamente sull’acquisizione della cittadinanza dei figli degli immigrati: se infatti ai dieci anni di residenza legale richiesta si aggiungono gli almeno tre anni per la decisione, è verosimile che si arrivi già all’età di 18 anni in cui possono presentare autonoma richiesta. Per questo sarebbe opportuno ridurre il periodo di residenza legale a cinque anni, com’era prima del 1992 e oggi è previsto in Francia, Germania, Regno Unito e Paesi Bassi.

A quest’ultimo proposito si è detto che l’acquisizione della cittadinanza da parte dei figli degli immigrati sarebbe tutto sommato irrilevante perché a loro già spetterebbero tutti i diritti riconosciuti per Costituzione ai minori. Anche in questo caso di tratta di una affermazione non del tutto vera. I figli degli immigrati, infatti, non possono esercitare quei diritti connessi alla cittadinanza, come partecipare a gite scolastiche o frequentare anni di liceo all’estero, svolgere attività agonistica nelle nazionali, andare all’estero per far visita alla famiglia d’origine. Limitazioni apparentemente marginali solo per chi fa finta di dimenticare quanto durante il periodo scolastico ogni esclusione dalle attività permesse ai coetanei possa essere avvertita con senso di disagio se non di profonda frustrazione. Tanto più quando si tratta di ragazzi stranieri (stimati in circa 900 mila) che hanno “nazionalità” italiana perché studiano nelle nostre scuole, parlano la nostra lingua, condividono la nostra cultura e decidono di vivere “all’italiana”, talora anche a costo della loro vita, come nel caso della povera Saman Abbas.

Se oggi essere italiani significa non discendere da un/una italiano/a ma sentirsi italiani, non vi è migliore attestazione in tal senso che l’aver regolarmente scelto di risiedere nel nostro Paese e avervi regolarmente e positivamente frequentato uno o più cicli di studio. La soluzione del c.d. ius scholae – proposta mediana tra un indiscriminato e eccessivo ius soli e le attuali restrizioni – consentirebbe allora una piena integrazione dei minori stranieri rispetto ai coetanei italiani. E consentirebbe al Parlamento di recuperare un po’ di autonomia rispetto a chi vorrebbe la sua agenda politica dettata esclusivamente sulla base del programma di governo. Diversamente, si dovrebbe ammettere che è stata solo una boutade agostana, dettata dai successi olimpici di ragazzi dalle talora tormentate storie personali, presto dimenticate.

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