Ursula rischia di allargare la guerra: aggressione a Mosca a fini difensivi…

RMAG news

Cosa succede alle culture politiche europee? Adesso che ha votato per allungare la gittata delle bombe, sino a lambire il suolo di Mosca, Carola Rackete si dimostra una eroina “interessante” per i giornali che danno la caccia ai cocciuti renitenti alla leva. Ottenuta l’agognata conferma ai vertici della Commissione, come apertura della nuova stagione, pure la scaltra baronessa democristiana tedesca si fionda in Ucraina per proseguire il suo mandato in qualità di messaggera di una ostilità infinita. E che dire dell’ex leader laburista norvegese il quale, trascorsi dieci anni di poco onorato servizio, lascia la Nato con un inno alla pura logica di potenza?

Il discorso di Stoltenberg

Le famiglie democratiche si sono convertite al lessico delle armi, brandito all’unisono come strumento principe per la risoluzione delle situazioni controverse. Con la metamorfosi in corso, i combattivi partiti europei hanno minato la loro missione ideale creando nelle urne la mistificante alternativa: destra radicale oppure guerra. La confluenza di media e governi nella percussione dei tamburi alimenta ovunque il sovranismo, con capi per niente raccomandabili che si spacciano nel mercato elettorale per improbabili attori di negoziato. I nipotini delle socialdemocrazie nordiche recitano come deformi controfigure che nulla vogliono più imparare dalle politiche di distensione impostate da Brandt, da Palme. In occasione del commiato, Jens Stoltenberg ha addirittura pronunciato un discorso dal tono incendiario: ha snocciolato cifre e distribuito pillole filosofiche per santificare il ruolo della Nato di custode temibile dell’eterno ordine unipolare a direzione americana.

La forza militare è il prerequisito per il dialogo”

Di convivere con la diversità in uno scacchiere policentrico, neanche a parlarne. In nome della democrazia, che reclama il diritto a primeggiare in ogni spazio, occorre insistere con l’espansionismo dell’Alleanza atlantica. La formula utilizzata dal segretario uscente contiene già un vasto programma: “La forza militare è il prerequisito per il dialogo”. E quindi la dura esibizione dei muscoli è l’unica condizione preliminare per abbozzare una qualche dinamica di collaborazione. Non resta che accennare ad un brindisi dinanzi alla fantastica notizia che non sono solo tre, come nel 2014, i Paesi che indirizzano risorse superiori al 2% della ricchezza nazionale per uniformi, missili e cingolati. Ora che in ventitré hanno varcato la fatidica soglia, la pace si avvicina. L’assioma ballerino di Stoltenberg è che soltanto il profumo dei dollari idonei a rimpolpare gli arsenali garantisce margini di tranquillità nelle relazioni internazionali. La sua granitica convinzione è che perseguendo l’insicurezza attraverso una sfrenata corsa agli armamenti si determinano, secondo un automatismo magico, i presupposti per la ragionevole intesa tra i Grandi del pianeta. Insomma, ciò che coincide con gli interessi del complesso militare-industriale è di per sé l’assicurazione di un equilibrio basato sull’armonica coesistenza.

Il precetto tradizionale, ciononostante stucchevole, per cui se desideri la pace devi attrezzarti per la guerra, è una falsità reazionaria ripetuta oggi dagli apparati ideologici che imperterriti spingono verso l’inimicizia. Per sostenere lo sforzo di una costante mobilitazione, la narrazione europea descrive un Vecchio Continente sull’orlo di una imminente conquista nemica. La Russia, con i suoi 145 milioni di abitanti, riesce con difficoltà a gestire un conflitto convenzionale con l’Ucraina, che vanta una popolazione di circa 30 milioni (esclusi i fuggiaschi). E però l’informazione e le élites nostrane inventano lo spettro di una “nuova Monaco”. Uno Stato che non è in grado neppure di presidiare i confini, al punto da essere a sua volta “invaso” da Kiev, viene raffigurato come un redivivo esercito di aggressione permanente impegnato nelle manovre avvolgenti della guerra lampo. Poco conta che l’esborso per le truppe di Washington sia nove volte quello del Cremlino. La leggenda di una Europa gracile, di cui l’Orso moscovita può fare “un sol boccone”, serve al metapartito a stelle e strisce per gettare altra benzina nella fabbrica dei proiettili.

Evocare l’incombenza di un pericolo esistenziale, proveniente da una terra meno rifornita e popolata, è funzionale a operazioni ideologiche che a malapena celano gli scopi di lucro dei mercanti di armi. I 27 della Ue, con l’aggiunta del sodale britannico, nel 2024 riservano alla “difesa” una quantità di denaro (445 miliardi) che è il quadruplo di quella smistata dal novello Hitler (110 miliardi, dato del 2023). Eppure la retorica dello scontro teologico tra libertà e autocrazia mostra sempre più la corda. Perfino uno studio che augura lunga vita alla Nato – in modo che dai 12 fondatori del 1949, transitando per gli attuali 32, si oltrepassino i 100 aderenti in vista delle celebrazioni per il centenario del Patto – riscontra un divario evidente tra il verbo della democrazia, agitato a giustificazione della crescente influenza degli Usa e dei satelliti a rimorchio, e il progressivo abbassamento dello standard democratico indispensabile per l’ammissione al gruppo privilegiato.

Le dichiarazioni di Eyal Rubinson

A questo riguardo, Eyal Rubinson (Growing Strong, Growing Apart. The Erosion of Democracy as a Core Pillar of NATO Enlargement, 1949-2023, New York, 2024) osserva che “l’Alleanza è diventata ignara delle gravi carenze democratiche di molti aspiranti soci, normalizzando una politica di allargamento che certo non è ottimale. Ucraina e Georgia compongono un club di stati impreparati rispetto ai canoni richiesti per entrare nella struttura. Nemmeno uno scenario, che al momento sembra sorprendente, di una loro trasformazione democratica può salvare i due paesi, in seguito ai tragici eventi dei reiterati sconfinamenti russi e della incorporazione di territori, rendendoli davvero compatibili con l’adesione”.

Alla luce di ciò, Rubinson si rammarica del fatto che la rilevanza del tasso di democraticità sia andato gradualmente diminuendo e rammenta che “la classifica democratica dell’Ucraina riflette la natura di un regime ibrido parzialmente libero (noto anche come Open Anocracy nell’indice Polity IV), in netto calo dal 2014, dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia, e in una posizione al di sotto della quota prevista dalla Nato” (ivi). Promettere a un esecutivo in guerra l’accoglimento della sua istanza di accelerato ingresso – in contrasto eclatante con le regole auree dell’organismo –, è il sintomo della condotta irresponsabile dei registi di una legittima difesa che è stata trasfigurata in un rischioso urto generalizzato. Ugualmente esplosiva pare la linea tratteggiata da Stoltenberg per cimentarsi con l’ascesa della potenza cinese. Il suo grido di battaglia, suggerito dall’odore della polvere da sparo, scandisce che “la libertà è più importante del libero scambio”.

La spesa militare della Nato

In un rovesciamento di orizzonti, il liberismo si rivela un vangelo indiscutibile da imporre solamente entro le svuotate democrazie, che ormai affidano al commercio la sanità, la scuola, i beni pubblici. Proprio dove il dogma del contratto dovrebbe trionfare, cioè nei traffici dell’economia-mondo, la libera concorrenza è invece denunciata come un fardello da abbattere. Al fine di conservare il primato vacillante, l’America pensa ad una dilatazione della frizione strategica che consenta di acquisire sul piano bellico quello che perdono nel duello tecnologico. Dopo aver tramortito l’idolo della transizione ecologica con l’introduzione, palesemente contraddittoria, di dazi per arrestare le vendite delle auto elettriche progettate dal Dragone, l’imperativo diviene quello di un fulmineo passaggio all’economia di guerra. Sotto la cura decennale di Stoltenberg, del resto, la spesa militare totale dei membri della Nato è lievitata di oltre cinquanta punti percentuali, raggiungendo nel 2024 i 1474 miliardi. Rinunciare ai bisogni sociali per coprirsi di munizioni è l’opzione reputata ineluttabile nell’ottica del contenimento della “minaccia cinese”. Stoltenberg la chiama altresì “sfida sistemica”, che implica la necessità di dosare calcolo economico e cannoni per un riassetto completo capace di arginare Pechino.

Con un salto acrobatico, dalla Nato come organizzazione a carattere regionale si precipita nella Nato quale coalizione globale destinata a competere dappertutto per svolgere una indebita mansione di polizia internazionale: in omaggio a un criterio di divisione del lavoro, la sua appendice europea, trainata dal Regno Unito, si concentrerà sulla Russia, mentre il braccio con mire nell’Indo-Pacifico, guidato dagli Usa, si dedicherà alla Cina. Questa mutazione è in realtà propedeutica ad una estensione dei livelli di precarietà. Preferire le grancasse e le tensioni geopolitiche all’ardua pratica della cooperazione e al disegno di una governance multipolare aumenta l’incertezza e non restituisce all’occidente l’antica egemonia. La baronessa, la capitana e il laburista sono il volto armato di un’Europa che ha dimenticato i cardini della civiltà politica come impresa per la costruzione di prospettive di concordia e solidarietà tra i popoli.

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