USA contro Italia sul 41bis: “L’isolamento fa danni”

RMAG news

Per poter chiedere una condanna a morte il pubblico ministero negli Stati Uniti deve dimostrare due cose: che il reato sia “tra i più gravi dei gravi” e che l’imputato, finché resta in vita, rappresenti ancora un pericolo per la società. Ovviamente tutti gli avvocati difensori argomentano che se una persona viene condannata all’ergastolo, e messa in un supercarcere, non può più essere “un pericolo per la società”. Ma, con un pizzico di ipocrisia, la Corte suprema (che negli Usa è un misto di Corte di Cassazione e Corte Costituzionale) autorizza da sempre i pubblici ministeri a considerare “società” anche un reparto di massima sicurezza, quindi il condannato potrebbe essere pericoloso per gli altri condannati.

È un corto circuito: gli assassini, a cui potrebbe essere risparmiata la vita “accontentandosi” dell’ergastolo, vengono tutti uccisi perché se no potrebbero uccidersi loro l’uno con l’altro. E siccome lo Stato, applicando quel pizzico di ipocrisia di cui sopra, ci tiene molto che qualcun altro non possa uccidere il suo reo prima che possa farlo lui, la soluzione è tenerli tutti in isolamento. Chi segue le pagine di Nessuno tocchi Caino, sa che sul tema “pena di morte” gli Stati Uniti sono divisi quasi perfettamente a metà. Metà degli Stati l’ha abolita, e della metà che l’ha ancora in vigore, solo metà la usa veramente, e della metà della metà che la usa, solo metà ne fa un uso regolare, e non sporadico. Sostanzialmente le circa 20 esecuzioni annue vengono effettuate solo da alcuni Stati del sud: Texas, Oklahoma, Florida, Missouri, Georgia, Alabama. Negli Stati che usano la pena capitale poco o nulla, si crea una situazione paradossale: le persone non vengono giustiziate, ma rimangono comunque nel braccio della morte a tempo indefinito. E nel braccio della morte si sta quasi sempre in totale isolamento: 22 ore al giorno chiusi in cella, e 2 ore in un cortile interno dove camminare, e qualche volta a settimana in un cortile vero e proprio, uno da cui si possa vedere il cielo, ed eventualmente (non sempre) calpestare dell’erba, e non il solito cemento.

Recentemente due sentenze “federali” (ossia di Corti importanti, non quelle locali; i giudici federali vengono nominati dal governo, quelli locali quasi sempre sono eletti dalla comunità) hanno “colpito” la pratica dell’isolamento a tempo indeterminato. Voglio dirlo subito: queste due sentenze sono state sollecitate dalla “società civile”, ossia da associazioni che si occupano del disagio mentale e della malattia mentale. In collaborazione con associazioni di avvocati che perseguono il rispetto dei diritti civili di ogni cittadino, e quindi anche del cittadino-detenuto, e anche del cittadino “da giustiziare”, hanno preso le linee guida del trattamento psichiatrico dei pazienti “normali”, e ne hanno chiesto l’applicazione, modificando quello che c’è da modificare, anche ai condannati a morte.

Quando si tratta di cittadini normali, tutti sono d’accordo su uno dei protocolli terapeutici: “l’isolamento può causare disturbi cognitivi dopo anche pochi giorni in una persona senza una malattia mentale preesistente. Ovviamente se tale confinamento viene prolungato, l’esito è particolarmente nocivo per una persona con salute mentale gravemente compromessa”. C’è voluto del tempo, si sono dovuti superare gli iniziali dinieghi delle amministrazioni penitenziarie locali e delle corti locali, ma nelle scorse settimane, quasi contemporaneamente, in Tennessee e Pennsylvania, nei casi rispettivamente di una donna, Christa Pike, tenuta in isolamento per 28 anni, e Roy Williams, isolato da 26, le Corti hanno stabilito che a queste persone, entrambe “gravemente compromesse dal punto di vista psicologico, cognitivo ed emotivo”, deve essere consentito di lavorare, e socializzare con altri detenuti della “popolazione generale” e, se vogliono, “partecipare a programmi educativi o religiosi”.

A fondamento di queste due decisioni sono stati messi l’Ottavo emendamento della Costituzione (contro pene inusuali e crudeli), la legge Ada (Americans with disabilities Act) contro la discriminazione delle persone con disabilità, e la Raccomandazione delle Nazioni Unite secondo cui l’uso dell’isolamento “dovrebbe essere proibito nel caso di prigionieri con disabilità mentali o fisiche, quando le loro condizioni sarebbero esacerbate da tali misure”. Nei bracci della morte Usa ci sono 2.200 detenuti, e per 2 di loro sta scattando ora un minimo di meccanismo di protezione. Può sembrare poco. In Italia, nei dati diffusi ad aprile, abbiamo 721 detenuti in 41 bis, anche loro in isolamento quasi totale, verosimilmente tutti, chi più e chi leggermente meno “gravemente compromessi dal punto di vista psicologico, cognitivo ed emotivo”. Sembra però che non abbiamo una “società civile” sufficientemente civile da occuparsene.

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