Vibo, assolto Solano: “ci fu corruzione elettorale ma senza aggravante”

Vibo, assolto Solano: “ci fu corruzione elettorale ma senza aggravante”

Il Quotidiano del Sud
Vibo, assolto Solano: “ci fu corruzione elettorale ma senza aggravante”

Le motivazioni della condanna dell’ex presidente della Provincia di Vibo, Solano, assolto per altri due reati nel processo “Petrolmafie”

VIBO VALENTIA – Poco più di 1000 pagine. A tanto ammonta l’entità delle motivazioni – depositate il 24 maggio scorso – del processo “Petrolmafie” il cui troncone ordinario si è concluso davanti al Tribunale di Vibo (presidente Grillone, a latere Conti e Maccarone) l’1 dicembre del 2023 con 35 condanne e 27 assoluzioni. Procedimento scaturito dall’omonima operazione della Dda di Catanzaro e poi da quella di Reggio Calabria incentrata su presunti illeciti perpetrati dalle cosche di ‘ndrangheta del vibonese e i loro sodali nell’affare degli idrocarburi con accuse mosse a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, intestazione fittizia di beni, riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza illecita, corruzione, evasione delle imposte e delle accise anche mediante emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, scambio elettorale politico-mafioso e turbata libertà degli incanti.
Tra gli imputati, con le accuse di corruzione elettorale, corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e turbativa d’asta in concorso con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, vi era l’ex presidente della Provincia e attuale sindaco di Stefanaconi, Salvatore Solano, condannato ad un anno solo per il primo reato, e senza l’aggravante.

ANTONIO D’AMICO

La sua posizione è strettamente connessa a quella del cugino Giuseppe D’Amico (condannato a 30 anni per associazione mafiosa), titolare di una società di carburanti (Dr Service),ritenuto vicino al clan Mancuso, il quale avrebbe esercitato delle pressioni illecite per agevolare l’elezione del parente a Presidente dell’ente intermedio, rivolgendo minacce più o meno esplicite ai componenti dell’elettorato attivo. Episodio che il tribunale ha ritenuto fondato condannando D’Amico in quanto l’attività tecnica ha permesso di cristallizzare alcune frasi dal tenore “inequivocabile, intenzionalmente rivolte dall’imputato ad alcuni consiglieri territoriali, per condizionarne l’esercizio del diritto di voto nella competizione elettorale del 31 ottobre 2018”.

Seppure, tuttavia, le conversazioni intercettate a parere dei giudici non esprimano contenuti esplicitamente minacciosi, le stesse sono  state “valorizzate ai fini della prova del reato, assumendo valore esplicativo delle pressioni illecite esercitate da D’Amico – teoricamente estraneo al bacino elettorale al quale si sarebbe dovuto rivolgere il cugino – nei confronti dei consiglieri provinciali”. E il Collegio arriva ad una tale conclusione valorizzando “i toni perentori ed impositivi utilizzati dall’imputato nelle conversazioni”, escludendo però l’aggravante dell’aver agito avvalendosi della forza d’intimidazione tipica delle associazioni di stampo mafioso, visto che le espressioni rivolte all’indirizzo dei componenti dell’elettorato attivo, “benché indubbiamente minacciose, non contengono riferimenti espliciti o larvati all’appartenenza dell’imputato ad ambienti della criminalità organizzata”.

LA POSIZIONE DI SOLANO

Per quanto concerne l’ex presidente della Provincia (difeso dall’avvocato Tiziana Barillaro), il Tribunale rileva che l’attività tecnica “non ha offerto riscontri in ordine a minacce o pressioni esercitate direttamente dall’amministratore locale nei confronti dei consiglieri” e quindi il quesito era se lo stesso potesse essere chiamato a rispondere a titolo di concorso morale nelle minacce e nelle pressioni esercitate dal cugino. Sul punto i giudici evidenziano che “per quanto nelle conversazioni intercettate tra i due imputati non si rinvengano riferimenti, neanche impliciti, a   o pressioni illecite ai danni dei consiglieri, può ritenersi che il futuro Presidente  dell’ente fosse consapevole delle modalità attraverso cui il cugino avrebbe procacciato i voti”.
Richiamando le intercettazioni il Tribunale evidenzia “l’affinità emotiva tra Solano e gli ambienti della criminalità organizzata, oltre a certificarne la piena consapevolezza in ordine alla caratura criminale del cugino e alle modalità con cui avrebbe procacciato i voti: in un simile contesto, sarebbe stato perfettamente inutile – oltre che rischioso – discutere per telefono delle minacce ovvero delle pressioni illecite che D’Amico avrebbe dovuto esercitare nei confronti degli amministratori locali”.

Inoltre, la responsabilità di Solano si ricava anche dalla conversazione da cui emerge che questi “riceveva dal sindaco di Capistrano una fotografia ritraente la scheda elettorale, vergata con la preferenza accordata al candidato. Pertanto,  anche tale circostanza costituisce prova indiretta delle pressioni illecite esercitate dall’odierno imputato per condizionare il voto nelle elezioni dell’ottobre 2018” e tutta la vicenda costituisce “manifestazione di un rapporto di cointeressenza biunivoca tra i due imputati, originato non tanto dall’appartenenza di  D’Amico ad ambienti della criminalità organizzata, quanto dal rapporto di parentela intercorrente tra i soggetti coinvolti”.

“NESSUN PATTO CORRUTTIVO”

Non hanno retto, invece, per Solano le accuse di corruzione frutto di un patto, in virtù del quale l’ex presidente della Provincia di Vibo  avrebbe garantito il proprio stabile asservimento agli interessi del parente, il quale – a sua volta – si sarebbe occupato del procacciamento dei voti per l’elezione del coimputato. Ebbene, per il Collegio l’ipotesi investigativa “non ha trovato riscontro in sede dibattimentale” in quanto, sebbene sia emerso il fattivo coinvolgimento di D’Amico nella campagna elettorale, “giustificabile anche alla luce del vincolo parentale intercorrente tra gli odierni imputati”  si è ravvisata “l’assenza di prove in ordine allo stabile asservimento dell’amministratore nei confronti cugino”. Inoltre, i giudici rilevano che per quanto i fatti siano maturati in un contesto del tutto particolare, si deve “escludere qualsiasi forma di condizionamento dell’ente pubblico nelle modalità di scelta del contraente”.

Al contrario, in esito alle verifiche sull’effettiva qualità del prodotto proposto dalla D.R. Service, l’amministrazione pubblica “desisteva dall’affidamento, senza subire pressioni illecite per addivenire ugualmente al perfezionamento del contratto” e tale rilievo assume valore esplicativo “dell’irrilevanza penale del fatto, atteso che nel caso in questione l’azione della pubblica amministrazione è apparsa immune da condizionamenti esterni”, né  può censurarsi la scelta di saggiare la qualità del prodotto prima di perfezionare l’affidamento della fornitura, trattandosi di prassi virtuosa che ha scongiurato l’acquisto di un prodotto inidoneo al rappezzamento delle strade (così smascherando l’effettiva natura di un affare che – almeno inizialmente – appariva foriero di vantaggi economici e logistici per l’ente provinciale)”.

LE CONCLUSIONI

Andando, quindi, alle conclusioni, il Tribunale ritiene che il rapporto privilegiato intercorrente tra Giuseppe D’Amico e Salvatore Solano, la cui pregnanza “emerge nitidamente dalle intercettazioni richiamate in questa sede, non abbia determinato alcuno sviamento del procedimento amministrativo dai binari convenzionali, tantomeno un condizionamento illecito in favore della Dr Service”, tant’è che la società non solo perderà l’affidamento diretto per la fornitura del bitume, ma non riceverà alcun compenso nemmeno per i campioni di prova.

Il Quotidiano del Sud.
Vibo, assolto Solano: “ci fu corruzione elettorale ma senza aggravante”