Il tempo della vacanza

Il tempo della vacanza

Il Quotidiano del Sud
Il tempo della vacanza

Ricordare, verbo tr., dal latino re-cordari (re, particella iterativa che esprime ripetizione, ritorno; cordari, da cor-cordis, cuore, perché il cuore era ritenuto nel mondo antico la sede della memoria). Ricordare vuol dire: far tornare dal cuore.

LA scuola, la prima elementare, era finita da più di due settimane e per me, come per tutti i bambini di Cirria, era il tempo della vacanza. Erano giorni vuoti, anche se avevo l’impressione che molti degli amichetti con i quali condividevo le ore dello svago non aspettassero altro fin dal primo giorno di scuola. «Vacanza – ci ragguagliò il maestro Giovanni Berardi qualche minuto prima del suono dell’ultima campanella dell’anno 1967 – vuol dire vuoto…». Faceva già caldo e l’attenzione non era quella che l’insegnante si aspettava. Così, rivolgendosi a un bambino seduto al secondo banco che pareva disinteressato, cercando di coinvolgerlo gli chiese: «Giuvanniè, come dice tuo padre quando nella bottiglia non c’è rimasta neanche una goccia di vino?». Il bambino non esitò un attimo e rispose: «Signor maestro, quann’a buttigghjia è bbacanta, patrimi…».

«Fermiti Giuvanniè – disse il maestro – lo hai appena detto: vacante. Se la bottiglia è bbacanta vuol dire che non c’è niente dentro. Ecco, i giorni di vacanza sono i giorni in cui non facciamo niente, sono vuoti, vacanti, come le bottiglie di vino del padre di Giuvannielli». Ridemmo tutti, pure il maestro Berardi e lo stesso Giuvannielli che da quel momento, insieme a quasi tutti i suoi compagni di classe, comprese il significato della parola vacanza.
Erano passate più di due settimane da quell’ultima campanella e io, a dire la verità, mi ero quasi stancato, nell’ordine: di leggere giornaletti e qualche pagina di un libro; di svegliarmi la mattina quasi presto e andare a letto quasi tardi; di mangiare sempre alla stessa ora; di guardare un poco di televisione, anche se la televisione d’estate, come la mia scuola, sembrava anch’essa chiusa per ferie.

Conoscevo tutti gli angoli di Cirria: vinelle, gafi, cafuorchi e strittulilli. Se alzavo gli occhi e soprattutto se fosse stato necessario, avrei potuto chiamare per nome tutte le persone che si affacciavano da balconi e finestre; sapevo muovermi senza difficoltà per le principali strade del paese, tra putighi e putighelli di generi alimentari dove andare a comprare la roba che papà non vendeva nel suo negozio; cantine, dove ogni tanto acquistare per il nonno mezzo litro di vino; scarperi, dove portare le calzature di papà e di mammà per farle risuolare; falegnami, ma solo per annusare il profumo del legno appena tagliato; carbuneri, per prendere, su disposizione della nonna, nu comiti pieno di carbonella; mercerie, dove farmi dare i pezzi occorrenti alle creazioni da sarta di mia madre: bottoni e tomatici, fili ed elastici, gesso e spille. Conoscevo anche l’Acquanova e via Roma, sutta e supra l’Arco, ‘u Funnichi e ra Purtella, san Francischi e a Ricella, sant’Antonio, Farconi, u fuossi Bianchi e a Cavalla rizza. Era il mio paese, pieno di vita e di vite.

Talvolta uscivo con mammà, il pomeriggio, quando bisognava fare visita a qualcuno per una ricorrenza, ad esempio un onomastico, un compleanno, una promessa di nozze, la nascita di un figlio. Spesso si portava una guantiera piena di dolci che io ostentavo solennemente, facendo attenzione affinché conservasse una posizione perfettamente orizzontale rispetto al suolo. Oppure andavamo a casa di qualche parente che non era stato troppo bene; chi si recava in casa d’altri per il motivo anzidetto poteva anche esimersi dal portare un presente, ma se si andava a trovare un uomo, un paio di pacchetti di sigarette (oppure un pacco di zucchero e uno di caffè) non guastavano.
Uscivo anche con papà, la domenica mattina dopo la messa, quando lui era libero e poteva portarmi in giro a farmi sburieri mentre mammà rimaneva a casa a cucinare.

L’Acquanova, la piazza principale del mio paese, nei giorni di festa era piena di gente, soprattutto quando il tempo era mite e il sole regalava i suoi raggi tiepidi. Erano pieni i bar (l’unica attività commerciale aperta la domenica), gruppetti di uomini stazionavano in piedi ai banconi o seduti ai tavolini, mentre i baristi servivano caffè e paste varie, latte di mandorla e vermouth, Vecchia Romagna e Cynar. “Chi bbu, Giusè?”, mi chiedeva papà. E io quasi sempre orientavo la mia scelta su uno spingioni, un dolcetto fritto ricoperto di zucchero che costava trenta lire e sembrava un siluro.

I giorni che non erano domenica, per non annoiarmi, cercavo di dare una mano a papà, guardando il negozio (facendo attenzione che non entrasse nessuno) quando lui doveva salire a casa per una qualsiasi esigenza; oppure andavo in farmacia a prendere le medicine, munito di razzetta, per i nonni; o portavo un po’ di spesa a casa di chi aveva fatto un ordine.

Un’altra occupazione da cui ricavavo una sorta di beneficio era l’osservazione dei passanti, in special modo quelli che scorrevano sotto i miei due punti privilegiati d’osservazione: il muretto del negozio di papà e il terrazzino di casa. Già in quel tempo ero dominato dalla curiosità, che consisteva soprattutto nel carpire i discorsi che i grandi facevano in piazza. E mi dava da fare il passaggio degli sconosciuti, perché dal loro aspetto potevo immaginarne provenienza e stato sociale, mentre nella frequenza dei loro passi potevano nascondersi, almeno secondo il mio parere di allora, destinazione e finalità.

Un pomeriggio vidi per la prima volta un ragazzo molto alto e ben vestito che procedeva con passi spediti e aveva le mani in tasca. Scese veloce e si diresse nella vinella dove Maria ‘i Luigi viveva con i figli. Quel ragazzo non era un piazzista né un mezzo delinquente – ne passavano tanti, sia dell’una che dell’altra categoria – ma semplicemente uno studente di una ventina d’anni che si diresse spedito verso l’ingresso della casa di Maria. Dietro di me notai la presenza di mia madre, anche lei impegnata a osservare quel giovanotto e la sua destinazione. «Mà, lo conosci?», le chiesi. «È il fidanzato di Finuzzella; Maria, ‘a mammisa, mi ha detto che oggi sarebbe andato a casa loro per fare conoscenza», rispose.

Nonostante non avessi, data la mia età, alcun interesse verso Finuzzella, che era una ragazzina bellissima ma più grande di me di qualche anno, non presi benissimo quella notizia. Finuzzella, come le tante persone che abitavano nei vicoli di Cirria, faceva parte del mio piccolo mondo di tutti i giorni, fatto di saluti e sensazioni, giochi, bronci e sorrisi, cose e persone. E io sapevo, nonostante la mia tenera età, come finivano queste storie: Finuzzella nel giro di pochi mesi, forse un anno, come era successo per altri ragazzi e altre ragazze di Cirria, si sarebbe sposata e avrebbe lasciato la nostra strada per sempre, dedicandosi al marito e a una nuova vita mentre il mio piccolo mondo, oggi antico, avrebbe perso una protagonista.
Però c’era ancora tanto tempo da vivere e da trasformare, oggi, in ricordi: per raccontarli a chi ha voglia di ascoltarli o scriverli per chi ha voglia di leggerli.

Il Quotidiano del Sud.
Il tempo della vacanza

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