Autonomia, il documento Draghi che smentisce Calderoli

Autonomia, il documento Draghi che smentisce Calderoli

Il Quotidiano del Sud
Autonomia, il documento Draghi che smentisce Calderoli

Lo scontro sull’Autonomia: il governo Draghi aveva previsto un fondo perequativo per ridurre i divari; il documento smentisce Calderoli. Ma è stato usato come bancomat…

Tra le cause dell’arretratezza economica e sociale del Mezzogiorno è stata sempre sottolineata anche la inadeguata dotazione delle infrastrutture. Sin dall’origine della storia unitaria del nostro Paese, il gap nelle reti è stato costantemente indicato come una delle leve di intervento per ridurre la forbice alla base della persistente debolezza competitiva delle regioni meridionali.

Me ne occuperò, con un occhio più attento al sistema dei collegamenti ed alla mobilità, in un libro che uscirà nei prossimi mesi per i tipi dell’editore Guida, dal titolo emblematico: “Senza rete. Il futuro dei trasporti nel Mezzogiorno”. Tale questione torna di centrale attualità per l’impatto che si determinerà a seguito della applicazione della legge sulla autonomia differenziata. Esiste ancora un grave fossato nella dotazione infrastrutturale tra Nord e Sud del nostro Paese: questo dato non costituisce solo un handicap strutturale per le regioni meridionali, ma rappresenta anche un vincolo allo sviluppo per le regioni settentrionali.

La certificazione di questo stato di fatto intollerabile è avvenuta da parte del Governo guidato da Mario Draghi. Nell’ambito dei lavori per la definizione della delega al governo del provvedimento sul federalismo fiscale, in Parlamento sono stati depositati documenti ufficiali sui criteri per la ripartizione delle risorse finanziarie disponibili al fine di ridurre il divario infrastrutturale. Tali analisi sono divenute pubbliche solo qualche mese fa, quando il giornalista Marco Esposito le ha rese note, nel suo testo di audizione alla Camera dei Deputati.

LA STORIA DEL FONDO

La storia era cominciata qualche anno prima. In vista del percorso verso l’autonomia differenziata, il Governo Conte 2 istituì il fondo per la perequazione infrastrutturale, dotandolo con un apporto finanziario pari a 4,6 miliardi di euro. Non era una cifra ovviamente adeguata per colmare i divari, ma rappresentava comunque un inizio nella giusta direzione. Non erano però stabiliti i criteri di ripartizione: questa operazione è stata condotta dal governo Draghi, con un lavoro che ha coinvolto i diversi ministeri interessati, con il coordinamento del ministero per le infrastrutture e la mobilità sostenibile, come si chiamava in quel tempo.

Il documento Draghi che smentisce Calderoli e il decreto sull’Autonomia

Il documento reca il titolo di “Nota tecnica esplicativa del metodo adottato per la valutazione dei divari infrastrutturali e della conseguente ripartizione del fondo di perequazione infrastrutturale”. Vengono prese in considerazioni le strutture sanitarie, assistenziali e scolastiche, nonché il numero e l’estensione delle infrastrutture stradali, autostradali, ferroviarie, portuali, aeroportuali ed idriche. Sono state considerate quali variabili critiche la dotazione, la qualità e l’accessibilità delle infrastrutture, La ponderazione di queste variabili per ciascun settore determina la costruzione dell’indice di infrastrutturazione.

I settori analizzati sono stati articolati in 11 sotto-settori, e si è individuato che per tre di essi non era previsto alcun finanziamento: dighe, impianti di depurazione ed aeroporti, cui è stato destinato il 15% delle risorse disponibili, mentre la parte restante è stata allocata secondo il metodo precedentemente definito per recuperare almeno parte del divario infrastrutturale.
Considerato il vincolo delle risorse finanziarie allocabili (4,6 miliardi di euro), è interessante notare che al Mezzogiorno è stato assegnato l’82,5% del fondo, sulla base dei criteri oggettivi di calcolo adottati dai ministeri che hanno partecipato alla elaborazione della nota. La dimensione così dominante della quota riservata alle regioni meridionali sta ad indicare il grado di arretratezza esistente, e lo sforzo finanziario necessario per recuperare il differenziale esistente.

IL DRASTICO TAGLIO DEL GOVERNO MELONI

Eppure, proprio questo fondo per la perequazione infrastrutturale è stato falcidiato in sordina dalla Legge di stabilità 2024, mentre intanto avanzava, per giungere ad approvazione parlamentare, la legge sulla autonomia differenziata. Inizialmente, il Governo Meloni ha utilizzato il fondo come bancomat per le necessità contingenti, riducendolo a 4,4 miliardi, per poi assestare un ulteriore taglio pari a circa 3,5 miliardi.

Con il Decreto Coesione, il Governo ha ricostituito molto parzialmente il Fondo perequativo infrastrutturale, istituito dalla Legge 42/2009 sul federalismo fiscale per dotare anche i territori del Sud di quelle opere pubbliche che nei decenni scorsi lo Stato ha realizzato nel Centro-Nord.
Il Decreto Coesione rinomina il Fondo perequativo infrastrutturale in Fondo perequativo infrastrutturale per il Mezzogiorno, con una operazione di natura puramente nominalistica: così, invece di evocare il pesante taglio finanziario operato con la Legge di Stabilità, si lascia intendere ai gonzi meridionali che si tratta di allocazione di nuove risorse, cosa che evidentemente non è.

Degli originari 4,6 miliardi di euro, restano oggi solo 890 milioni di euro, oltretutto spalmati in un lungo arco temporale, per il finanziamento della progettazione e della costruzione – in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia, Sardegna – di infrastrutture stradali, autostradali, ferroviarie, portuali, aeroportuali e idriche e di strutture sanitarie, assistenziali e scolastiche coerenti con le priorità indicate nel Piano strategico della ZES Unica Mezzogiorno, è stato approvato a fine luglio 2024. A proposito: ma è stato approvato effettivamente, oppure è passata solo la copertina, priva di contenuto? A distanza di due settimane, il Piano non è pubblicato da alcun sito istituzionale. Sarebbe interessante trovarne traccia.

HA QUALCOSA DA DIRE CALDEROLI?

Il Ministro Calderoli ha nei giorni scorsi protestato vibrantemente per quella che definisce una campagna di disinformazione orchestrata dai giornali meridionali. Innanzitutto, per amore di verità, il Ministro dovrebbe fare riferimento alla unica testata, questa, che ha deciso di combattere con determinazione una battaglia di verità e di civiltà, partendo dai dati di fatto ed inchiodando tutte le forze politiche alle responsabilità di una condizione diseguale per il Mezzogiorno, che rischia di restare inchiodata sui valori storici, se non di peggiorare ulteriormente.

Ora, il Ministro Calderoli intende per caso rispondere al grave fatto che si è determinato, con il taglio radicale del fondo per la perequazione infrastrutturale, a fronte delle risorse già appostate dal Governo Conte 2 e poi ripartite dal Governo Draghi, secondo i criteri di superamento dei divari che tanto cari dovrebbero essere al Ministro leghista sulla base dei paradigmi del federalismo fiscale?
Ancora una volta sono i meridionali che si lamentano senza ragione, oppure questo è lo stil novo che si preannunzia con l’autonomia differenziata, che intanto si discuteva nelle aule parlamentari mentre avveniva questa pantomima davvero avvilente per la qualità della democrazia?

Solo propaganda

Lo stile nei processi democratici è quasi tutto, perché definisce i comportamenti e le azioni. Il Ministro Calderoli, del quale il Quotidiano del Sud ha giustamente chiesto le dimissioni, continua solo a fare propaganda, e di fronte ai dati scappa, anche perché preferirebbe costruire una realtà virtuale di comodo, invece di confrontarsi con numeri e fatti.
Il fondo per la perequazione infrastrutturale è stato deliberato dal Governo Conte 2 in attuazione dell’articolo 119, comma 5, della Costituzione, secondo le indicazioni contenute nella legge sul federalismo fiscale che lo stesso Ministro Calderoli ha promosso e portato ad approvazione nel 2009.
Come dobbiamo interpretare il taglio radicale, effettuato dal Governo Meloni, delle risorse assegnate inizialmente al fondo per la perequazione infrastrutturale, lasciandone alla fine solo il 19,3%? E’ in questo modo che si intende recuperare i divari nel nostro Paese, lasciando nella disponibilità meno di un quinto delle risorse che erano comunque solo un inizio, certamente non adeguato ad affrontare la questione?

IL CROLLO DEGLI INVESTIMENTI

Veniamo da una lunga stagione di contrazione delle risorse finanziarie messe a disposizione dal Paese per il miglioramento delle reti. Dalla crisi finanziaria globale fino alla pandemia, la spesa italiana per infrastrutture, secondo i dati Istat, si è contratta in media del 2,8% l’anno (5 volte il tasso con cui è decresciuto il Pil nello stesso periodo), passando dai 65,3 miliardi di euro del 2008 ai 45,3 miliardi del 2021. Nel Mezzogiorno lo stesso indicatore, nelle stesse unità temporali, è passato da 21,9 miliardi a 11,3 miliardi. In poco più di dieci anni è crollato il quadro delle spese in conto capitale delle amministrazione pubblica, sotto l’attacco delle grandi crisi internazionali e delle politiche di austerità che sono prevalse nella Unione Europea.

Grazie all’Europa, con l’iniziativa del Next Generation EU, nel prossimo decennio la spesa in infrastrutture italiana è destinata a crescere in media dell’1,7% l’anno, un tasso superiore alla media dell’eurozona (+1,5%), ma soprattutto nettamente al di sopra delle previsioni pre-pandemia (+0,9%). La crescita è più accentuata nel periodo 2021-2026 (+2,6%), per diventare meno intensa nel quinquennio successivo (+0,9%) per un effetto combinato di una minore spesa pubblica e di una riduzione della forza lavoro dovuta all’invecchiamento della popolazione.

Inflazione e guerre complicano la situazione

La crescita attesa della spesa in infrastrutture supererà, nel periodo in esame, quella prevista per il Pil, grazie agli ingenti fondi a disposizione, alle riforme attuative previste e, non da ultimo, alla rinnovata fiducia che si sarebbe dovuta innescare grazie ad un ingente programma di investimenti. La ripresa dell’inflazione, e le guerre che sono intanto emerse, stanno costituendo elementi di freno per questa strategia.

Le regioni meridionali, che continuano ancora oggi a registrare un divario rispetto al resto del Paese sulle reti, non solo non hanno recuperato lo svantaggio originario, ma hanno invece registrato la crescita del tempo della forbice. Questo paradosso delle infrastrutture meridionali si è determinato per effetto di due cause principali: da un lato la drammatica dilazione dei tempi nella esecuzione degli investimenti, e dall’altro il sistematico “overinvestment”, funzionale a soddisfare gli interessi dei costruttori delle opere, prevalentemente imprese del nord, e non certo la riduzione dello divario nei servizi.

LA CADUTA DELLE REGIONI DEL NORD

Le ricadute sul tessuto economico sono pesantissime. Come spesso capita, la mancanza di reti performanti da un lato genera un danno per le aziende insediate nei territori a svantaggio competitivo, ma poi costituisce anche ragione per non attrarre nuovi investimenti in quegli stessi territori. La mancanza di densità produttiva a sua volta costituisce ragione per rallentare e ritardare gli investimenti nelle reti di mobilità, perché non esiste sufficiente domanda tale da rappresentare massa critica al fine di giustificare un ritorno adeguato agli investimenti nelle infrastrutture.

In verità tutto il Paese ha imboccato, nella fase più recente, la strada del declino, ed il rallentamento negli investimenti per le interconnessioni nei sistemi di mobilità lo sta a testimoniare. Se guardiamo alle classifiche degli ultimi decenni tra le regioni europee per ricchezza prodotta, mentre quelle meridionali sono rimaste nella fascia bassa della graduatoria, le nostre regioni settentrionali sono oggi collocate molto in basso rispetto ad una precedente presenza nella fascia alta. Il rallentamento nella modernizzazione delle infrastrutture ha giocato un ruolo in questo ripiegamento del Paese nel suo insieme.

Le regioni del Nord hanno perso posizioni nella graduatoria europea

Le regioni italiane, particolarmente quelle del Nord, hanno perso posizioni nella graduatoria europea. Tra il 2000 ed il 2019 Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, le nostre regioni più dinamiche hanno perso rispettivamente 22, 27 e 36 posizioni nella classifica delle regioni europee stilate in base al PIL per abitante. Il Piemonte ha perso addirittura 49 posizioni.
L’unica opera infrastrutturale degna di rilievo che è stata realizzata nell’ultimo mezzo secolo in Italia è stata la rete ferroviaria ad alta capacità tra Salerno e Milano-Torino, che ha contribuito in modo significativo a mutare la struttura delle connessioni per i passeggeri di lunga percorrenza.
Migliorando la rete dei collegamenti tra il nord del Mezzogiorno ed il resto del Paese, l’effetto è stato quello di approfondire il solco delle distanze rispetto al resto del Sud.

Il drammatico rallentamento della spesa in conto capitale costituisce certamente uno degli elementi che hanno frenato l’andamento della produttività totale dei fattori: la rarefazione degli investimenti, soprattutto in una fase di mutamento del paradigma produttivo e tecnologico, ha contribuito a rendere statica l’organizzazione economica e sociale del nostro Paese.

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