Così Giovanna Marini scrisse un pezzo di storia in una canzone

Così Giovanna Marini scrisse un pezzo di storia in una canzone

Il Quotidiano del Sud
Così Giovanna Marini scrisse un pezzo di storia in una canzone

ANDO’ proprio così: la straordinaria “I treni per Reggio Calabria”, forse la più bella canzone politica italiana, fu un reportage di cronaca sul 22 ottobre del ‘72 e Giovanna Marini la scrisse durante il viaggio di ritorno e la presentò dopo qualche anno. Ora che se n’è andata dopo una breve malattia a 87 anni, è forse il caso di suggerire una ricerca su YouTube a chi non ha mai ascoltato quelle note, un pezzo di storia della Calabria e del Sud. Un modo per capire quello che eravamo e quello che siamo diventati.

Quel giorno, la grande manifestazione indetta dai sindacati segnò la fine ufficiale delle Rivolta di Reggio Calabria, dopo due anni di incidenti. Una città di fatto chiusa, con interi quartieri in mano ai dimostranti, con gli orari dei traghetti, degli uffici e dei cinema che si adeguavano ai tempi della protesta. Le scuole sbarrate, l’odore dei lacrimogeni dentro le case, i morti e gli attentati: una tragedia sociale rimossa. Per chi l’ha vissuta o sentito i ricordi dei genitori, il solo ascolto della canzone è un tuffo prolungato nella commozione, perché dura quasi cinque minuti e racconta una società lacerata perfino dentro le famiglie. E dal punto di vista musicale, una lezione ai rapper di oggi. Giovanna Marini viaggia su uno dei treni verso la città dello Stretto, da Roma ci mette diciotto ore. Non ha bagagli, il segretario della Fiom-Cgil Bruno Trentin le ha chiesto di portare la chitarra. All’ultimo momento lascia il cane al figlio, sentendo “come un pericolo”. Lungo il percorso, otto bombe. È una giornata di sole, ma non c’è la voglia di godersi la luce blu del mare che passa proprio sotto la ferrovia. Nel suo scompartimento, un’intera famiglia calabra assunta alla Fiat che ne approfitta per tornare a casa dai parenti. Le offrono del pecorino. Nascono di sicuro quella notte i versi “La vecchia e la figlia alle rifiniture/ il marito alla verniciatura/ la figlia della figlia alle tappezzerie/ stanno in viaggio ormai da più di venti ore”.

Alle prime notizie sugli attentati, ci sono macchinisti che si rifiutano di proseguire. Altri “i compagni”, più coraggiosi prendono la guida delle locomotive. Nessuno scende: “Ormai siamo qui, dove dobbiamo andare?”. Ma a Napoli i vagoni restano chiusi, non fanno salire più nessuno. “Piano piano/ a passo d’uomo” il treno non si ferma: e vicino a Reggio, anche i bambini fanno il saluto romano. I convogli, le navi e i bus riescono ad arrivare, decine di migliaia di persone si ritrovano così in Piazza del Popolo per il corteo. Mai paura. In testa, uno slogan superato dai tempi: “Nord e Sud uniti nella lotta”. Oggi, in tempi di autonomia differenziata, suona quasi eversivo. Siamo veramente uniti? Com’è lontano il Nord con i redditi della Germania dal Sud spopolato e senza servizi, con salari da Nordafrica… Ma quello era il tempo dei sogni, e la Rivolta per un capoluogo di regione suona incomprensibile, una mera questione di campanile. Di sicuro, come canta Marini, c’è “il silenzio di quelli fermi/che stavano a guardare”. Il popolo dei senza voce che aveva trovato sfogo e unità nella protesta. Subito etichettati come fascisti (esattamente come oggi passa l’equazione calabresi = ‘ndranghetisti), poi finiti per diventare uno strumento nelle mani dei capi e dell’eversione nera. Perché quello alla fine accade: il tritolo sui binari, la strage sul treno a Gioia Tauro, una città che si sente rappresentata solo dal Movimento Sociale Italiano.

Giovanna Marini mi raccontò poi un retroscena su quella giornata: “Avevo ascoltato una confessione di Pietro Ingrao: quella domenica poteva scoppiare la guerra civile. Ciccio Franco, il leader dei ‘boia chi molla’ fece sapere che c’erano duemila uomini armati, pronti ad attaccare se il corteo fosse partito. Furono gli operai dell’Omeca di Reggio a prendere in mano la situazione e ad andare avanti con il loro striscione: il corteo partì, nessuno sparò perché c’era scritto: officine meccaniche calabresi. Ma quante pietre”. Reggio – per chi non la conosce – è una newtown interamente ricostruita dopo il terremoto del 1908. È squadrata e degrada verso il mare, le ultime cinque-sei traverse sono arricchite di palazzi liberty. Semplice quel giorno per i dimostranti piazzarsi nelle strade superiori parallele al Corso, dove passa il corteo. Gli operai si trovano in una specie di imbuto. E infatti “dalle vie laterali/si vedevano i sassi volare”. I manifestanti si riparano con i cartelli, qualche testa spaccata. Divisi nella lotta. Quando il corteo si conclude, c’è ancora gente che deve partire dalla piazza, una folla immensa che la città non vedrà mai più. “Alla sera Reggio era trasformata/sembrava una giornata di mercato”.

Oggi c’è come l’impressione che la Calabria sia scomparsa dal dibattito pubblico. Una canzone come questa, intellettuali come Pasolini: parlò di “guerra civile dimenticata”, girò un documentario. Giornalisti come Adele Cambria: una che diede le dimissioni perché il suo pezzo sulla Rivolta di Reggio fu cestinato e poi riscritto dal caporedattore dell’Europeo. Politici come Pietro Ingrao, Giacomo Mancini, Emilio Colombo: protagonisti nel bene e nel male di quegli anni, soprattutto perché con molte delle loro scelte facciamo i conti ancora adesso. L’autrice ha poi raccontato di aver passato il viaggio di ritorno con la penna in mano: “L’emozione era stata talmente grande, decisi subito che dovevo raccontare quelle giornate. Ci ho messo due anni per scriverla tutta, per fare entrare tutto quello che volevo dire”. E poi la difficoltà di trovare una musica adatta a quella ballata. Agli allievi della Scuola Musicale di Testaccio racconterà poi: “Qualsiasi musica pensassi non funzionava, poi grazie al jazz ho scoperto il riff. Mi è sembrata una invenzione straordinaria e non lo era affatto, era stato già usato moltissime volte prima di me e divenne, in seguito, il rap. Era la trasposizione del folk in città, un folk urbano”. Un parlato-cantato che si può fare con tre accordi, ma che nella versione ufficiale prende un’armonia che solo lei – che aveva studiato con il guru della chitarra classica Segovia – avrebbe potuto dare.

Dalla presentazione della canzone – davanti a Pasolini che le fece i complimenti, pochi mesi prima di essere assassinato – Giovanna Marini portò quella canzone su ogni palco e in ogni concerto, da sola e con altre cantanti. Per poi inciderla anche insieme a De Gregori, in un cd che ha venduto 150mila copie. E il treno è così rimasto il simbolo del nostro diario collettivo. Con il treno siamo sempre partiti, spesso per non tornare più, o solo per le feste. Il treno era quello delle famiglie tornate a casa con la tuta blu, che il 22 ottobre del ’72 speravano in un abbraccio fra Nord e Sud che alla fine non ci fu. Le ferrovie sono quelle che dovranno sbancare e rifare, se nasce il Ponte sullo Stretto. I treni sono quelli che continuano ad uscire dallo stabilimento di Torre Lupo, a due passi dal mare, dove durante la pandemia avvistarono i delfini. Ora l’Omeca si chiama Hitachi, gli operai sono giovani e selezionati da un’agenzia interinale. Chissà se conoscono Giovanna Marini.

Il Quotidiano del Sud.
Così Giovanna Marini scrisse un pezzo di storia in una canzone

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