Così le guardie tunisine affogano i bambini: barchino speronato da nave militare

RMAG news

“Ci avete ucciso tutta la famiglia e ora volete deportarci nel deserto?”, singhiozza e implora Andrew sulla banchina del porto di Sfax, in Tunisia. Un agente tunisino lo guarda e replica, secco: “Chi vi ha detto di venire nel nostro paese? Credete che la Tunisia sia un paese per neri?”.

Indossa la divisa della Garde Nationale, la gendarmeria governativa della Tunisia che la notte precedente, in mezzo al mare, ha intenzionalmente distrutto la barca di Andrew, causando la morte di 16 persone, tra cui 9 donne e 6 bambini piccoli. Abbiamo finora intervistato sei sopravvissuti, che si trovano in luoghi lontani tra di loro. Tutti raccontano la medesima storia, che vi riportiamo.

La barca – di ferro, lunga 8 metri – salpa la sera del 5 aprile 2024 dalla costa di Al Amra, poco a nord della città tunisina di Sfax. A bordo ci sono 42 persone, tutte subsahariane, per lo più famiglie con bambini piccoli e donne incinte che cercano di fuggire dalle persecuzioni razziali alimentate dal presidente tunisino Saied e più volte denunciate da Amnesty International .

Una dei 7 minori a bordo si chiama Angie ed è una bambina di tre anni. Piange spaventata quando, un’ora dopo la partenza, nel buio, due motovedette scure della Garde Nationale si avvicinano a grande velocità e causano alte onde.

Suo zio Jonathan ricorda ogni particolare di quel momento: i tunisini che li illuminano con un grosso faro, lui che prende in braccio la bimba e la mostra agli agenti governativi gridando “Vi prego, lasciateci andare, abbiamo dei bambini!”.

Invece di fermarsi, una delle motovedette sperona violentemente la barca, per farla affondare. Le va addosso non una, ma cinque volte. Ad ogni assalto i passeggeri gridano terrorizzati e cercano di respingere gli attacchi. L’ultimo avviene da dietro: la motovedetta della Garde Nationale tunisina cozza contro la loro poppa, distruggendo lo scafo.

Inizia l’affondamento e i tunisini si allontanano. A distanza di sicurezza osservano le persone cadere in acqua e morire. I primi ad affogare sono quelli che non sanno nuotare, soprattutto i bambini e le loro madri. Alcune persone restano a galla, lottando e boccheggiando.

Andrew aiuta ad uscire dalla barca Maria, che è incinta, e nuota assieme a lei e al piccolo Samir, 7 anni. Procedono nell’acqua e nel buio, assieme a tanti altri che urlano “Aiuto” ad ogni bracciata. Ma le motovedette si allontanano e le persone affogano. Lo zio di Angie, Jonathan, ha bevuto molta acqua, è solo, esausto, sta per mollare. Un amico lo sostiene, lo aiuta a nuotare fino ad una delle imbarcazioni tunisine e a salire.

“A bordo – ricorda bene Jonathan – i guardiacoste tunisini della Garde Nationale filmavano chi era ancora in acqua e ridevano”. Alla fine i tunisini permettono a 22 sopravvissuti di salire sui loro mezzi navali.

Si salvano Jonathan, Andrew, Maria, Samir, ma non la piccola Angie e gli altri 5 bambini. Il bilancio è di 16 morti. I tunisini recuperano 13 cadaveri e li trasbordano, assieme ai vivi, su una motovedetta più grande che fa rotta per Sfax. Chiedono ai sopravvissuti di identificare i parenti deceduti.

Al porto di Sfax, la mattina del 6 aprile, ci sono centinaia di persone migranti catturate in mare nella notte. Le motovedette ancorate sono state tutte donate dall’Italia alla Tunisia negli ultimi vent’anni. Le ultime 6 sono state trasferite dal governo Meloni alla Garde Nationale a dicembre 2023 assieme ad un finanziamento di 4,8 milioni di euro.

Finanziamento peraltro impugnato con istanza cautelare di fronte al Tar del Lazio da diverse associazioni (Asgi, Arci, ActionAid, Mediterranea Saving Humans, Spazi Circolari e Le Carbet) perché viola la normativa italiana che vieta di finanziare e trasferire armamenti a Paesi terzi responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani.

Il trattamento che il governo della Tunisia infligge alle persone migranti, oltre ad includere omicidi in mare, comprende anche la deportazione nel deserto: uomini, donne e bambini vengono derubati di soldi e telefoni, abbandonati nel deserto e condannati alla morte per sete e stenti.

Il caso più famoso è stato l’omicidio di Marie, 6 anni, e di sua mamma Matyla (che usava il nome di Fati perché cristiana e spaventata dalle persecuzioni religiose), eseguito dal governo tunisino il 16 luglio 2023.

Le deportazioni nel deserto, nonostante le denunce internazionali, proseguono ancora oggi e al porto di Sfax anche i sopravvissuti alla strage del 5 aprile 2024 vengono caricati su quattro autobus dalla polizia tunisina, assieme ad altre centinaia di persone.

Jonathan ci racconta scene raccapriccianti: “Gli ufficiali della National Garde ci hanno ammanettati e ci hanno rubato tutti i telefoni e i soldi. Ci hanno picchiato. Hanno picchiato anche le donne incinte. Hanno molestato sessualmente le donne, mettendo loro le mani sui seni e nelle parti intime”.

Gli autobus arrivano nel deserto al confine con la Libia verso sera. I poliziotti tunisini fanno scendere i passeggeri e li picchiano ancora, poi li abbandonano senza acqua e cibo e ordinano loro di camminare verso ovest.

Nei successivi due giorni molte persone, già provate dal viaggio per mare, muoiono di sete. Jonathan assiste alla morte di una donna incinta, non può far nulla per aiutarla. Una volta spirata, lui riprende a camminare, per tutta la notte, assieme ad una decina di sopravvissuti.

Alle prime luci del mattino arrivano diverse jeep Toyota Land Cruise con le insegne della polizia libica. Catturano tutte le persone migranti che trovano e le chiudono in una prigione. Dopo due terribili settimane i carcerieri forniscono ai prigionieri un telefono per chiamare le famiglie. Pretendono un riscatto di mille euro a persona.

La madre di Jonathan scoppia a piangere appena riconosce al telefono la voce del figlio: lo credeva morto, convinta che non avrebbe mai riavuto il suo corpo, il giorno prima ha fatto celebrare il suo funerale.

Le esequie delle persone morte in mare il 5 aprile, anche quelle dei bambini, verranno probabilmente celebrate senza i corpi. Nonostante l’identificazione subito effettuata dai parenti, la Garde Nationale ha trasferito i 13 cadaveri recuperati nell’obitorio dell’ospedale universitario di Jbaib Bourguiba etichettandoli come “non identificati”.

L’unica dichiarazione del governo tunisino sulla vicenda è stata la lamentela del direttore regionale della sanità di Sfax, Hatem Al-Sherif, per il “superamento della capacità del reparto autopsie”.

Hatem Al-Sherif ha sottolineato “la necessità di accelerare le procedure e di seppellire i corpi il prima possibile affinché la situazione non peggiori a causa delle alte temperature” . Nessun commento è stato fatto sulle responsabilità della Garde Nationale nella strage.

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