Il Pd è risorto con le Europee, ma per rovesciare Meloni servono alleanze larghe sul modello Ulivo

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Dopo il giorno della festa viene il tempo della riflessione. La distanza tra il Pd e FdI nel settembre del 2022 era di circa due milioni di voti. Alle europee di domenica solo un milione di schede divide Giorgia da Elly. Giusto allora brindare al bipolarismo ritrovato purché si sappia che il prossimo gioco, complice la distorsiva legge elettorale ancora vigente, non è propriamente all’insegna del bipartitismo (la somma delle due forze maggiori copre solamente il 52% delle espressioni di voto). Il Pd e i suoi media amici (ma anche il manifesto ricamava sul drammatico duello virtuale tra i neofascisti al potere e un Berlinguer redivivo grazie alla commemorazione di Padova) hanno confezionato lo scontro come tenzone tra le due donne leader. Questa narrazione artificiale ha prodotto dei tangibili risultati influendo nelle opzioni dei cittadini, con il risultato che entrambe le formazioni se ne sono avvantaggiate nello scrutinio.

Mentre Giorgia ha però alle spalle una collaudata coalizione a tre teste, in campo ormai da trent’anni, e al cui interno ogni assolo meloniano non è destinato a guastare gli equilibri stratificati, Elly si ritrova personalmente più forte ma con i potenziali alleati azzoppati e costretti a rimediare ad un insidioso male di vivere. Il Pd ha condotto le grandi manovre rispolverando il classico schema veltroniano: vocazione maggioritaria come stimolo al voto utile. A sinistra questa esortazione ad edificare una massa critica di resistenza alla onda nera galoppante funziona sempre. La solitudine del Nazareno fa incassare alcuni significativi dividendi: lo spegnimento dell’ambizione di Conte e la neutralizzazione del terzo polo liberaldemocratico. Questi vantaggi, che al momento regalano al Pd la leadership della opposizione, si riducono a nulla se però non si allestisce un variegato esercito davvero competitivo.

Se Giorgia festeggia il primato raggiunto nelle percentuali di partito (il 28,8) con un incremento complessivo del consenso coalizionale (il 47,4 a fronte del 43,8 delle ultime politiche), Elly deve invece rapportare il suo buon 24,1% al 30,9 toccato assieme al suo gagliardo alleato di sinistra (Avs), che la tiene sotto ancora di 17 punti rispetto alle destre. Il modello Veltroni regala l’ebbrezza dello scatto per la fuga in solitaria ma occulta la complessità dei rapporti di forza, che esigono capacità di manovra e un paziente lavoro di tessitura. Sarebbe del tutto impolitico rimproverare il Pd per aver troppo personalizzato il confronto (solo in extremis è sfumata la tentazione di mettere il nome della leader nel simbolo), una tattica che ha comunque garantito la non scontata resurrezione del partito dopo la stagione mortifera di Letta. Tuttavia i limiti di una condotta da solista, che bada alla propria crescita senza alcuna postura coalizionale, appaiono evidenti in prospettiva. Il vantaggio strategico, che il voto comunque conferisce, dovrebbe indurre il Nazareno ad archiviare l’illusoria ricetta di Veltroni e a sintonizzarsi con le alchimie di segno contrario, quelle antiche di D’Alema-Prodi, le uniche che hanno permesso alla sinistra larga di vincere.

Sommate, le opposizioni di centro e di sinistra superano la maggioranza assoluta dei voti validi, ma il divario tra le tre destre compatte e le opposizioni, che nel 2022 era di oltre 1,5 milioni a vantaggio di queste ultime, ora si è ridotto a poche decine di migliaia di voti (solo i 513 mila sostenitori di Santoro allargano la forbice). A rigore, la “Ducia” ha perso, almeno in termini strettamente numerici, il plebiscito sulla propria leadership. La maggioranza solo potenziale che sulla carta le si oppone è però altra cosa dalla reale articolazione di un blocco coeso in grado di disarcionarla. Per rosicchiare quel 17% di preferenze in più che rendono le destre ancora irraggiungibili, il Pd rinvigorito dal voto dovrebbe costruire una efficacia politica delle alleanze.
Se ripercorresse la strada minoritaria di Letta (patto solo con Avs), rimarrebbero da recuperare quasi 4 milioni di scarto rispetto alle destre (erano comunque 5 nel settembre nero del 2022). Un allargamento delle intese con altri e riluttanti soggetti è in tal senso un passaggio obbligato per il Pd. Il problema è che la forte polarizzazione, che ha premiato il Nazareno, ha al tempo stesso generato macerie tra gli interlocutori.

Le leadership delle altre forze di opposizione sono tutte in discussione dopo il trauma di giugno. E però, dopo averli tramortiti con la scenografia redditizia di un duello “Elly versus Giorgia”, il Pd deve sperare che gli esanimi partiti di cui ha bevuto il nettare siano suscettibili di una qualche ricarica. Senza il loro coinvolgimento, non ha che farsene dei segnali di sorpasso rivolti alla Fiamma, giacché si esce dal caos soltanto se si disegna una offerta unitaria che sia percepita dagli elettori come competitiva (la sensazione della sconfitta annunciata incoraggia tra i cittadini solo l’abbandono preventivo). Con un accordo esteso anche al M5S (posto che la sua crisi ufficialmente esplosa non venga risolta con un arroccamento difensivo attorno a figure antipolitiche alla Di Battista), il Pd rafforzerebbe l’egemonia appena conquistata nel Sud e nelle isole, ma rimarrebbe ancora 1 milione e mezzo di voti da colmare. Un dialogo con le culture liberaldemocratiche pare quindi imprescindibile, e non solo per azzerare il divario numerico con le destre. E’ in corso peraltro un astuto lavoro del Corriere, e di altri fogli, per sganciare gratis FdI dalla famiglia della destra radicale e arruolarlo quale “forza centrista e conservatrice” del tutto compatibile con le regole del gioco (sfasciare l’assetto repubblicano-costituzionale oppure “deportare i migranti” in Albania cosa sarà mai, in fondo?).

Contro la destra autocratica resta tutta da inventare la trama delle alleanze con i suoi contenuti ideali e sociali. Sinora la guerra in Ucraina è stata una frattura dormiente, che non ha inciso nel voto italiano, molto più sensibile allo scenario democratura-mobilitazione antifascista. Ma non è detto che la escalation bellica rimanga congelata anche nei prossimi mesi proteggendo così la tenuta tranquilla del metapartito filoamericano, che condivide – uragano Trump permettendo – la stessa ubriacatura euro-atlantica come fonte prevalente della legittimazione dei leader. Pd e Avs risultano già adesso molto competitivi nelle città del Centro-Nord, dove si avvantaggiano della radicalizzazione dei ceti colti, laici e per vocazione sensibili ai nuovi diritti e a candidature identitarie. Il restringimento dei votanti al 49% conferisce un plusvalore a questa vitale porzione di società, che si mostra più disponibile alla critica, all’impegno civile.

Senza ampliare questo pur essenziale nerbo della forza democratica, però, la destra rimane imbattibile nelle periferie, nelle aree interne, nel variegato universo degli autonomi. Quelle estese fette di società che – soprattutto al Sud – hanno disertato i seggi non sono agevolmente conquistabili con le simbologie, i linguaggi, l’agenda raffinata della sinistra post-materialista. Il rischio emerso nettamente dopo il voto di giugno è quello di accettare come irreversibile la grande mutazione che negli anni ha trasformato il tradizionale Stato del benessere in un post-moderno Stato dei (relativamente) benestanti. La battaglia contro l’astensionismo, che evidenzia il profilo di una democrazia minima e puramente elettorale, ha un esplicito connotato sociale. Un linguaggio politico incapace di nominare e ragionare in termini di classe (i candidati Pd provenienti dalla Cgil non a caso hanno fatto fiasco), di organizzare il conflitto territoriale, di spingersi oltre le giunture culturali, non garantisce la riscossa contro la destra distruttiva e sempre più carente di ogni capacità di governo.