Intervista a Enrico Morando: “Indagine su Toti? Odio alternanza tra garantismo e giustizialismo”

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Enrico Morando, leader dell’area liberal del Pd, tra i fondatori dell’associazione di cultura politica Libertà Eguale, già viceministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni, la decisione di Elly Schlein di firmare per il referendum della Cgil contro il Jobs Act è un guanto di sfida lanciato all’area riformista del Pd di cui lei fa parte?
È ben di più. È un grave errore politico. Per ragioni di merito, relative all’effetto del quesito (mi riferisco a quello sul contratto a tutele crescenti); per il suo significato in termini di più generale strategia politica; per il rapporto tra l’iniziativa referendaria e la realtà dei dati Inps sul lavoro in Italia.

Vuole cominciare dal merito del quesito? non teme che la sua venga scambiata per una posizione da azzeccagarbugli?
Bisogna smetterla con l’andazzo per cui, nei referendum, conta solo il “messaggio“. Sul contratto a tutele crescenti del Jobs Act, ci sono stati due interventi: il primo del Parlamento, col Governo Conte 1, che ha portato il massimo indennizzo da 24 a 36 mesi della retribuzione precedente. Il secondo è quello della Corte Costituzionale, che ha tolto dalla legge la formula per cui l’indennizzo cresce con l’anzianità lavorativa. La sentenza lascia al giudice discrezionalità di decidere, fino al livello massimo. Dopo questi due interventi, il contratto a tutele crescenti come tale non esiste più: il referendum non ha per oggetto il testo originario del Jobs Act, ma quello che risulta dopo questi due interventi. Inoltre, se si raggiungesse il quorum e il sì vincesse, non si tornerebbe alle regole del vecchio articolo 18 dello Statuto, ma alla sua ultima modifica, quella della legge Fornero. Principale effetto concreto: l’indennizzo massimo scenderebbe da 36 a 24 mesi.

Ma il “cuore”, non è il merito del quesito, è il messaggio generale: “abolire il Jobs Act“ significa svoltare a sinistra, come promesso con la mozione congressuale di Schlein…
Questa posizione è legittima, ma -oltre ad ignorare il merito-, ignora anche il fatto che nel Jobs Act c’era molta, buona “sinistra”. La norma che ha permesso ai rider di Torino di avere le tutele previste dal rapporto subordinato; la norma che ha aumentato la NASPI e ha esteso ai lavoratori delle piccole imprese la cassa integrazione; la norma che ha abolito i co.co.pro.; la norma che istituisce il sistema nazionale delle politiche attive… Se la si butta sul “generale” (aboliamo il jobs act perché è di destra) si nega il carattere di sinistra di queste scelte. Molte da attuare e altre da ulteriormente modificare (mi riferisco soprattutto alle politiche attive). Non certo da respingere in blocco, tornando agli istituti precedenti, caratterizzati da evidenti discriminazioni a favore delle imprese più grandi, a danno delle piccole imprese e dei loro lavoratori.

Fin qui, sul terreno del diritto e della politica politicante. Ma dov’è il contrasto con la realtà dei dati Inps?
I sostenitori del referendum affermano che il Jobs Act ha aumentato la precarietà. Nel Jobs Act si trovano molte norme contro il precariato: quelle per l’abolizione dei co.co.pro., per il contrasto delle dimissioni in bianco, per ostacolare il ricorso alle false partite IVA. I dati Inps ci dicono che, negli ultimi 15 anni, gli assunti con contratto a tempo indeterminato sono aumentati sia in numero assoluto, sia in termini percentuali sul totale della forza lavoro. Mentre la probabilità di essere licenziati è rimasta inalterata. Quanto ai rapporti a termine – sopratutto quelli del part-time involontario- restano sempre troppi, ma si mantengono vicini alla media europea e il contenzioso in sede giudiziale si è letteralmente dimezzato.

Non mi dirà che questi positivi risultati occupazionali sono esclusivo frutto del Jobs Act…
Non ho detto questo. Il livello dell’occupazione non può essere stato spinto verso l’alto da un solo fattore, per quanto rilevante. Sostengo però che per giudicare del sì o del no all’iniziativa referendaria basta constatare – dati alla mano- che non è vero che il Jobs Act è stato causa di un aumento della precarietà.

Tra gli analisti politici, uno per tutti Stefano Folli, va forte l’idea che il futuro del Pd modello Schlein è a sinistra, in alleanza-competizione con i 5Stelle di Giuseppe Conte e con l’Alleanza Verdi Sinistra di Fratoianni e Bonelli.
Se si parte riconoscendo centralità alla politica delle alleanze, non si va da nessuna parte. La vicenda del sostegno al referendum sul Jobs Act, la scelta di non sostenere il nuovo Patto di stabilità e crescita (in compagnia di Fratelli d’Italia, Lega e M5S), la candidatura in posizione eminente di personalità che si impegnano a non votare mai e poi mai per l’invio di armi alla resistenza Ucraina, il progressivo allontanamento dal modello del “governo del Primo Ministro” (tesi 1 dell’Ulivo) in materia di riforma costituzionale, dimostrano che sta venendo al pettine il nodo di tipo strategico: qual è il ruolo del Pd nella costruzione di una credibile alternativa di governo al centro-destra di Meloni? Un’alternativa che oggi non c’è, al di là degli zero virgola -in più o in meno- nei sondaggi settimanali? Se si guarda oltre il chiacchiericcio quotidiano, si vede che emergono sostanzialmente due risposte. La prima è quella di quanti invitano a prendere atto che “l’amalgama non è riuscito”. E lavorano per fare, con Conte e altre forze minori, un nuovo soggetto politico di sinistra-sinistra, che potrà poi allearsi con uno o più forze liberaldemocratiche, di cui si auspica non solo la formazione, ma anche il rafforzamento (alla fine, una gamba da quel lato ci vuole, se si vuole vincere)… Le scelte che ho prima richiamato sono figlie legittime di questa linea. Sono scelte del tutto o in parte contraddittorie rispetto a quelle che hanno caratterizzato il PD fin dalla nascita e nel corso delle sue esperienze di governo? È una contraddizione da gestire, forti della riconquistata identità di sinistra, concedendo più di qualcosa al populismo.

E la seconda?
La seconda è quella di chi tiene ferma la scelta da cui il PD è nato: dare vita in Italia ad un partito che sia esso stesso “di centrosinistra”, a vocazione maggioritaria, asse dell’alternativa di governo al centro-destra. Capace e pronto a fare alleanze politiche, ma “naturalmente“ in grado di garantire alla eventuale coalizione la leadership, la gran parte del consenso elettorale, la sostanza dell’indirizzo programmatico, a partire dalla collocazione internazionale (europeismo e atlantismo). Dunque, per funzione e definizione, un partito dai confini molto ampi, dentro il quale competono per l’egemonia le forze del moderno riformismo e le forze del moderno massimalismo, sulla base di regole che rendono linea politica e leadership effettivamente contendibili (il PD queste regole se le è date e, sia pure a fatica, è riuscito a conservarle). Questa linea, per i limiti di chi, come me, l’ha sostenuta, è stata sconfitta al Congresso, come è accaduto in altri partiti. Ma non è una sconfitta per sempre…

Non le sembra che questa seconda posizione, che lei sostiene, sia poco realistica? Il Pd non riesce a tenere tutti dentro: prima perde Bersani e se ne va. Poi perde Renzi e se ne va anche lui…
Prendere atto dell’impossibilità di convivenza nello stesso partito è un atto di falso realismo: sia l’una, sia l’altra scissione non hanno risolto alcun problema. Ne hanno creato di ulteriori, dando vita a piccoli partiti personali che hanno combattuto o combattono con le soglie di accesso all’assegnazione dei seggi. Anche in altri partiti a vocazione maggioritaria di altri Paesi è accaduto che i riformisti fossero sconfitti pesantemente. Ma hanno retto l’urto, hanno reagito e sono tornati a prevalere. Oggi, sembra che questo possa accadere addirittura nel Partito socialista francese, con la nuova leadership di Glucksmann: nuova per età, nuova per i contenuti (aiuto all’Ucraina), nuova per i rapporti con France Insoumise di Melenchon. Dunque, è realistico pensare che questo possa accadere anche nel Pd.

Afferma Goffredo Bettini in una intervista a l’Unità: “Per noi la questione morale deve significare una riforma radicale del partito e della politica. Su questo ci dobbiamo cimentare. Quando, come accade in tante parti del Paese, gli eletti sono tutto e la militanza impoverita, priva di autonomia e di peso, è evidente che diventano centrali le preferenze e l’esercizio del potere”.
A tutti quelli che mi chiedono delle impressioni che traggo dal mio girovagare tra circoli e manifestazioni del partito in tutta Italia, do questa risposta: di solito, il partito manda alla stazione ferroviaria o all’aeroporto, per accompagnarmi alla riunione, uno o due giovani attivisti. Sono ormai molti anni che questo giovane, dopo qualche parola di presentazione, mi racconta della sua candidatura per il consiglio comunale o di circoscrizione, citando il numero delle preferenze riportate e l’ordine di uscita. Lo so, questo con la questione morale non c’entra nulla. Ma c’entra con il valore dell’impegno politico: se un giovane pensa che il metro di misura della qualità del suo impegno sia quello, costruisce un ordine di priorità che mette la conquista della preferenza al primo posto. Tutto questo per dire che, anche in questo caso, sarebbe necessario cambiare le regole: l’utilizzo diffuso del sistema delle preferenze (cui molti propongono di tornare, anche per quelle elezioni che non le prevedono), crea incentivi per la cattiva politica. Così come il rifiuto di obbligare tutti coloro che hanno incarichi politici e, soprattutto, amministrativi, a dare conto pubblicamente di ognuno dei loro incontri con i portatori di interesse. Il diritto alla riservatezza, in questo caso, non c’entra nulla: se scegli di fare il rappresentante del popolo o l’amministratore della cosa pubblica, devi rendere consultabile la tua agenda: giorno, ora, luogo e oggetto dei tuoi incontri, rendendo sanzionabile ogni “dimenticanza”.

Davvero pensa che basti questo per combattere i fenomeni degenerativi?
Ridurre le dimensioni dell’arcana imperii, non basta, ma serve.

Cosa pensa di ciò che sta emergendo dalla vicenda della Regione Liguria?
Odio l’alternanza tra garantismo e giustizialismo a senso unico: se c’è di mezzo l’avversario, richiesta di dimissioni immediate e condanna preventiva, a furor di indignazione trainata dai media. Se c’è di mezzo uno della mia parte, critiche alla giustizia a orologeria e innocenza fino a prova contraria. Per togliere di mezzo questo umiliante spettacolo, servono le riforme, a partire dalla separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti. Vedo però che, purtroppo, anche il ministro Nordio predica abbastanza bene, ma fa poco o nulla.

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