Intervista a Ritanna Armeni: “La cultura del jobs act nasce con Prodi, Schlein ha rotto il coro”

RMAG news

Una voce libera, intelligentemente critica, della sinistra. È Ritanna Armeni, giornalista e scrittrice.

Siamo ormai a ridosso delle elezioni europee, in un pianeta segnato dalla guerra, ma il dibattito in Italia si concentra su alleanze, colpi bassi, scandali veri o presunti. Siamo fuori dal mondo?
Io credo che nel mondo ci siamo e ce ne renderemo presto conto. Penso anche che la gente se ne renda molto più conto di quanto la politica nei telegiornali faccia vedere. Tu ti sei riferito ai conflitti mondiali, un tema che implicherebbe un discorso un po’ più ampio che riguarda la consapevolezza che noi abbiamo di tutto questo.
Questi aspetti di distrazione di massa, che vanno dagli scandali alla magistratura alle beghe televisive, sono sicura che poi nel voto non contano nulla o contano soltanto nella misura in cui incentivano l’astensione. È incredibile come la politica si riempia di sondaggi, una vera bulimia, e poi se ne freghi.

Argomento intrigante che merita di essere approfondito.
Da tutti, ma proprio tutti, i sondaggi sulle preoccupazioni degli italiani, esce l’immagine di un popolo molto serio o comunque molto preoccupato dai problemi veri. Al primo posto c’è il problema della sanità, poi il problema dei salari che non aumentano, tutte questioni serissime che però scompaiono pressoché sempre dai radar mediatici. Persino la guerra, che pure è una cosa maledettamente seria e preoccupante, viene usata dai mass media come un’arma di distrazione di massa. Nel momento in cui vediamo delle catastrofi gigantesche attorno a noi e ci sentiamo abbastanza impotenti e prendiamo atto che la classe dirigente italiana ed europea non è da meno, è come se ci volessero distogliere dai problemi reali. La guerra si mostra, di certo non la si risolve, ma serve per riempire spazi mediatici che altrimenti potrebbero e dovrebbero essere utilizzati per raccontare drammi sociali che la politica o nasconde o affronta in termini propagandistici. In questo senso la guerra diventa un’arma di distrazione di massa, è come se ci volessero distrarre dai problemi reali.

In tutto questo, le elezioni dell’8-9 giugno?
La vera scommessa, a mio avviso, riguarda l’astensione. Se questi quasi due anni di governo di destracentro sono riusciti a modificare qualcosa nella testa della gente, si vedrà dalla mobilitazione elettorale. Se ci sarà una partecipazione al voto un po’ più larga. Se invece continua il trend costante delle ultime elezioni regionali, amministrative, di un astensionismo che si diffonde e incrementa in ogni dove, allora il segnale sarebbe davvero negativo.

Elly Schlein ha inserito nelle liste per le europee del Partito democratico alcune candidature di forte identità solidale e pacifista. Penso, per citarne due, a Cecilia Strada e Marco Tarquinio. Una scelta, quella della segretaria dem, che ha ricevuto critiche e registrato mal di pancia nello stesso Pd. Essere pacifisti oggi è un reato politico?
No, non lo è. Ma è molto divisivo.

Perché?
Lo è perché, non credo nella coscienza delle masse popolari ma certamente in quella dei gruppi dirigenti della politica, la guerra sta diventando ormai una opzione culturalmente accettata. Questo è il punto. Se tu parli con un dirigente politico, ma anche con qualcuno che fa parte dell’entourage della politica, loro della guerra ne parlano come fosse una opzione normale. Ci dobbiamo difendere, la guerra è così, Gaza è così… Per essere pacifisti oggi devi partire da altri presupposti.

Quali?
Se rimani dentro la logica corrente, dominante, sei imprigionato, ti consegni ad una logica di guerra. Io ritengo che la Schlein abbia fatto una scelta apprezzabile. Nel senso che ha messo nelle liste una opzione pacifista che almeno si vede. Persone come Cecilia Strada e Marco Tarquinio, che tu hai citato, sono persone che hanno fatto dell’opzione pacifista una opzione decisa, si direbbe senza se e senza ma. Da questo punto di vista, quella della segretaria dem mi sembra una presa di posizione abbastanza coraggiosa. Sappiamo bene che dentro al Partito democratico vi sono altre opzioni anche molto forti. Ma quella pacifista non è così minoritaria come si vorrebbe far credere. Di recente sono stata alla presentazione del libro di Goffredo Bettini alla Sala Petrassi a Roma, dove c’era tutto il Pd romano. Gli applausi sulla pace sono stati di tutti. Non era, diciamo così, una platea “popolare”. C’erano Tarquinio, Bertinotti, Nichi Vendola, Smeriglio e tante e tanti altri pur con storie, percorsi, diversi. Sull’opzione pace c’era davvero un comune sentire. Significa che anche nel Pd sta maturando qualcosa che contrasta la logica imperante che resta, purtroppo, una logica di guerra. Avere una logica di pace è difficile se tu non l’hai praticata attraverso una proposta diplomatica, una idea altra dall’invio di armi, ed è destinata a diluirsi nell’aria politica.

Altro tema caldo è quello dei salari e dei diritti dei lavoratori.
Questa è una vergogna. Una cosa ignobile. Il governo sta vendendo questa ripresina, lo 0,1-0,2 in più, dell’occupazione come una vittoria.
Effettivamente in termini quantitativi l’occupazione è aumentata, qualche centinaio di migliaia di posti di lavoro non precari.

Dov’è la vergogna, il trucco?
Sta nel nascondere un fenomeno disastroso, cioè la nascita e la crescita del lavoro povero. Noi siamo abituati a una cosa che c’è entrata nel sangue: il lavoro non è la povertà. C’è un’asticella oltre la quale tu non sei più povero perché lavori. Hai quello che ti consente di mantenere te stesso, la tua famiglia, di mandare i figli a scuola etc. Questa asticella oggi non esiste più. Perché è vero che i posti di lavoro sono aumentati ma è vero anche che i salari non è che sono rimasti uguali, si sono ridotti in questo paese. Significa che tu lavori ma sei povero. Sei andato al di là di quell’asticella che ormai da decenni contraddistingue le politiche del lavoro occidentali per cui se hai un lavoro non sei povero. Oggi, invece, hai un lavoro e sei povero. Con questa inflazione conviene assumere dei lavoratori, perché i soldi che gli dai sono poca cosa. I dati bisognerebbe leggerli magari anche con un occhio di classe, come si sarebbe detto una volta. Guardando questi dati, uno dice sì è vero ci sono oltre 400mila lavoratori in più, sì è vero, sono lavori non precari ma fissi. Ma con 900 -1000 euro cosa fa una persona? Presto si arriverà ad una consapevolezza più forte, anche perché all’impoverimento del lavoro si affianca la dimensione sempre più tragica delle morti sul lavoro. Quelli che sono morti non sono precari, sono lavoratori con una busta paga, con i contributi, tutto regolare. Solo che lavorano in quelle condizioni, in ditte di subappalto, e, molto probabilmente, con salari minimi. D’altro canto, questo governo l’unica cosa che ha fatto è bocciare il salario minimo. La prospettiva su cosa vogliano mi pare chiarissima.

I diritti dei lavoratori e la sinistra. Elly Schlein ha firmato il referendum contro il Jobs Act promosso dalla Cgil. Apriti cielo…
Questa è una promessa che la Schlein aveva fatto ben prima di candidarsi alle primarie. Si tratta di un punto dolente. Non tanto il Jobs Act in sé, ma una politica del lavoro che ha accettato il precariato, facendone addirittura una forma di libertà, che risale a decenni fa, a Treu tanto per fare un nome. È una cultura che si deve sconfiggere. Il fatto che abbia firmato questo referendum è un fatto positivo, nel senso che almeno ha introdotto una rottura nell’unanimismo culturale sulla precarietà. Mi ricordo che prima di una tornata elettorale, ero ad una trasmissione di Lucia Annunziata, in cui c’era Elly Schlein. Allora non era neanche candidata alla segreteria del Pd, accompagnava Enrico Letta, a quel tempo segretario Pd, e già allora lei si pronunciò contro il Jobs Act. Il punto è che Schlein deve contrastare e sconfiggere una politica che si è sedimentata in decenni in questo partito e nelle sue precedenti ramificazioni. È dal governo Prodi che va avanti e poi ha avuto il suo culmine col Jobs Act di Renzi. Non è una cosa che si può riferire in modo politicista a Renzi.

C’è chi sostiene che senza memoria non c’è futuro. A me viene in mente al grande riscontro di pubblico avuto dalla mostra su Enrico Berlinguer. Un pubblico fatto da tanti giovani che Berlinguer non l’hanno conosciuto, vissuto. C’è ancora forte a sinistra un bisogno di identità nutrito anche da una memoria storica che non va smarrita ma rinverdita e attualizzata?
La sinistra non c’è perché non c’è identità. Nel momento in cui si vuole fare o c’è identità o una sinistra non la si costruisce. Questo bisogno è fortissimo. L’identità come l’ideologia non sono morte. Sono state sconfitte dalla storia alcune identità e alcune ideologie. Come quelli che dicono: è finita la lotta di classe. No, la lotta di classe non è finita, hanno vinto i padroni. Non è che l’ideologia e l’identità siano finite, morte e sepolte. Quell’ideologia, quell’identità sono state sconfitte. Punto. Se non si ricostruiscono, è chiaro che non si va avanti. Facciamo un partito senza identità? Almeno tre-quattro cose in cui tutti ci riconosciamo, devono esserci. Secondo me non si può fare neanche senza ideologia. L’ideologia è ciò distingue noi dai nostri meravigliosi animali compagni domestici. Che sono sicuramente molto intelligenti, ancor più affettuosi ma non hanno una visione complessiva del mondo, della vita, delle cose da fare. Poi possiamo introdurre tutti gli elementi di comprensione, anche di amicizia tra posizioni diverse, a questo ci credo molto, alla comprensione e anche all’accettazione di alcune cose che i nostri avversari probabilmente hanno più di noi. Penso, ad esempio, che rispetto alla cultura liberale alcuni debiti l’abbiamo. Ma da qui a dire che dobbiamo rinunciare ad avere una identità e una ideologia chiare, visibili, forti…Diciamo allora che ci rinunciamo perché siamo stati sconfitti.