Le manove del Governo sulla Consulta: rischio lottizzazione

Le manove del Governo sulla Consulta: rischio lottizzazione

Il Quotidiano del Sud
Le manove del Governo sulla Consulta: rischio lottizzazione

Rischio lottizzazione: da nove mesi la Corte Costituzionale è priva di un giudice senza che si sia provveduto alla sostituzione, la Meloni aspetterà dicembre e la fine del mandato di altri tre giudici per trasformare l’equilibrio politico del collegio della Consulta con nomine di giudici compiacenti verso l’Esecutivo e senza autonomia

INVECE di aggiungere, sottrarre provvisoriamente un posto alla tavola della Corte Suprema, per averne alla fine quattro: è questa la nuova rappresentazione istituzionale della destra italiana. Il tempo necessario per la gestazione propedeutica alla nomina di un giudice costituzionale da parte del Parlamento è stato abbondantemente superato. Sono passati ormai nove mesi dalla cessazione del mandato di un componente del Collegio della Suprema Corte, senza che si sia provveduto alla sostituzione, che secondo la Costituzione deve avvenire entro un mese. Quello che sta accadendo, non è un caso, ma è il frutto di un preciso disegno politico, con conseguenze rilevanti sugli accadimenti istituzionali e sul profilo della costituzione repubblicana.

Il vulnus di credibilità che questa vicenda determina per la vita delle istituzioni dalla mancata elezione di un giudice costituzionale non sta nel fatto in sé, ma nella sequenza di eventi che si determineranno di qui alla fine dell’anno. Le decisioni sugli orientamenti delle forze politiche di maggioranza sono state assunte molti mesi fa. Giorgia Meloni ha da tempo espresso la sua idea di aspettare che finiscano il mandato altri tre giudici a fine dicembre, al fine di operare la grande trasformazione nell’equilibrio politico del collegio della Corte Suprema, con nomine di giudici compiacenti verso il potere esecutivo e senza autonomia.

A partire dal 20 gennaio del prossimo anno, la Corte costituzionale sarà chiamata ad esprimere il suo giudizio sia sul ricorso in via principale presentato dalla Regione Puglia avverso alla legge sulla autonomia regionale differenziata sia sulla ammissibilità del referendum per la abrogazione totale della riforma Calderoli, che ha già adesso superato in modo netto l’obiettivo del mezzo milione di firme raccolte. Successivamente, la stessa Corte sarà certamente compulsata anche sulla riforma costituzionale del premierato, alla quale tiene ancor di più la presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni. Le sorti dell’assetto istituzionale futuro del nostro Paese passano per i corridoi del Palazzo della Consulta, che sta proprio di fianco al Palazzo del Quirinale.

La destra di governo, che ha già sperimentato con successo il potere della lottizzazione nel servizio pubblico radiotelevisivo, e negli altri gangli fondamentali della vita dello Stato, ora ha deciso di puntare sul vertice più delicato negli equilibri costituzionali, cioè la Consulta, tra i massimi organi della vita repubblicana. Alla rottura della più che ragionevole convenzione tra le forze politiche di suddivisione per aree culturali e politiche si sta tentando di determinare un monopolio di indirizzo capace di cambiare la natura stessa della Consulta. È un indirizzo che è accaduto purtroppo già alla Suprema Corte degli Stati Uniti, con esiti esiziali sulla natura di quella democrazia. Lo stiamo vedendo peraltro proprio in questi giorni.

LA DERIVA PRESIDENZIALISTA DELLA CORTE COSTITUZIONALE NEGLI USA

Con una sentenza, emanata nello scorso mese, che determina la sostanziale immunità del Presidente, la Corte suprema degli Stati uniti ha condizionato il corso delle elezioni e la traiettoria del futuro del Paese. La maggioranza conservatrice, compresi tre togati designati dallo stesso Donald Trump, ha respinto la precedente decisione di un tribunale federale e decretato che lo stesso Trump non può essere giudicato per «atti ufficiali» intrapresi quando era carica. Il caso nasce dal processo intentato per il tentativo di sovvertire i risultati dell’elezione del 2020. E’ stato accolto il ricorso di Trump che invocava la «completa immunità» di un presidente in carica, le cui decisioni «non possono essere condizionate» dal «rischio di querele». Più precisamente la Corte crea per i presidenti una distinzione fra atti d’ufficio e atti «personali» (passibili invece di procedimento penale), ordinando alla giudice del processo di distinguere dettagliatamente fra le due categorie, un procedimento certosino, soggettivo e presumibilmente appellabile ad oltranza, che centra innanzitutto l’obbiettivo di ritardare i procedimenti al punto che sarà impossibile giungere al processo prima delle elezioni di novembre.

La sentenza è stata resa da giudici che comprendono Clarence Thomas, la cui consorte, Ginni, ha attivamente sostenuto l’insurrezione del gennaio 2021, e da Samuel Alito, che in quei giorni davanti casa ha issato i vessilli del movimento eversivo. Di fatto, però, la decisione crea, per la prima volta nella storia nazionale, una presidenza imperiale, i cui unici limiti saranno posti dalla discrezione etica e dagli scrupoli morali del presidente in carica. La conquista conservatrice del massimo tribunale statunitense è stata portata a termine con il boicottaggio, da parte dei Senatori repubblicani, di una nomina che spettava a Obama, quella per sostituire il giudice conservatore Antonin Scalia nel 2016. Più di recente, Trump ha potuto invece selezionare ben tre nominativi dalla lista compilata dalla Federalist Society, stilando una lista di candidati dalle comprovate credenziali conservatrici. I sei giudici che compongono l’attuale super maggioranza reazionaria della Corte appartengono tutti a quella associazione. Tutti sono integralisti cattolici, completamente allineati con Trump.

Si è determinata, insomma, una deriva ideologica della Corte. La sentenza sui poteri presidenziali è stata resa, per esempio, nel cinquantesimo anniversario della decisione con cui la stessa Corte, nel 1974, ordinò a Richard Nixon di consegnare alla commissione di inchiesta sul Watergate le registrazioni segrete effettuate nello studio ovale. Quell’atto, che avrebbe condotto alle dimissioni del presidente, rimane ad oggi celebrato come apoteosi della democrazia contro gli abusi di potere. Abusi che oggi la corte avalla e rende inevitabili in futuro.

IL DESTINO DELLA CORTE COSTITUZIONALE ITALIANA

La Corte costituzionale è (dovrebbe essere) composta da 15 giudici, designati in maniera paritaria dai tre poteri: giudici supremi, Parlamento in seduta comune e Presidente della Repubblica. Da nove mesi, però, la Corte costituzionale risulta composta da soli 14 membri, e ciò perché il Parlamento continua a non adempiere a un preciso e chiaro dovere costituzionale: eleggere un giudice costituzionale «entro un mese» dalla scadenza del mandato del giudice uscente. D’altronde, quando spetta al Parlamento eleggere il nuovo giudice, la probabilità che il plenum della Corte rimanga incompleto per un tempo assai lungo è ormai più una regola che un’eccezione.

La ragione per cui non si è ancora proceduto all’elezione del giudice in sostituzione della presidente Silvana Sciarra risiede nel fatto che i tempi del Parlamento non coincidono con quelli previsti dalla Costituzione. Il che significa che il termine del mese a disposizione per completare la Consulta non è considerato come un tempo congruo al fine di assicurare un patto compromissorio per logiche di lottizzazione fra le stesse forze politiche. La conseguenza è lapalissiana: la scadenza è difficilmente rispettata. D’altronde, non essendovi alcuna sanzione, il termine è ordinatorio, e non già perentorio. Stavolta però non siamo in presenza solo di un ritardo fisiologico rispetto alla capacità della istituzione parlamentare di rispettare un tempo effettivamente stretto che la Costituzione indica per la votazione. Col passare dei mesi, appare sempre più plausibile che i partiti che sostengono l’attuale maggioranza vogliano posticipare il più possibile l’elezione del nuovo giudice, estendendo quindi il termine fino a 13 mesi, almeno fino al 16 dicembre 2024, quando scadranno i mandati dei giudici Barbera, Modugno e Prosperetti. In quel momento, il Parlamento dovrà eleggere tutti e quattro i giudici, poiché quelli in scadenza sono stati eletti tutti dal Parlamento. E non era mai accaduto che a uno stesso organo spettasse il rinnovo quasi completo di un terzo della composizione della Consulta, operando, nei fatti, una lottizzazione vera e propria.

Altrettanto plausibile è ritenere che, nei nove mesi già trascorsi, i vari scrutini siano stati condotti non tanto per trovare una convergenza su una figura autorevole da eleggere, quanto per abbassare il quorum necessario per l’elezione. Il fatto che il ritardo con cui il Parlamento in seduta comune procede nell’elezione dei giudici costituzionali rappresenti una costante non vuol dire che tutto ciò debba essere accettato come prassi e debba avvenire nell’indifferenza generale delle istituzioni, in particolare del Parlamento in seduta comune e del suo presidente, che è il presidente della Camera dei deputati.

L’INVITO, GARBATO MA DETERMINATO, DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel corso della cerimonia del Ventaglio prima delle vacanze estive con i rappresentanti della stampa parlamentare, ha ribadito l’urgenza per il Parlamento di procedere senza esitazioni all’elezione del nuovo giudice della Corte Costituzionale, al fine di evitare qualsiasi rischio di violazione della Costituzione. «La lunga attesa della Corte costituzionale per il suo quindicesimo giudice» rappresenta secondo il Presidente della Repubblica «un vulnus alla Costituzione compiuto dal Parlamento, proprio l’istituzione che la Costituzione considera al centro della vita della nostra democrazia. Non so come lo si vorrà chiamare: monito, esortazione, suggerimento, invito. Ecco, invito, con garbo ma con determinazione, a eleggere subito questo giudice».

LE REGOLE DI FUNZIONAMENTO DELLA CORTE

Va sottolineato che la mancanza della elezione del giudice vacante tra pochi mesi si sommerà con le tre ulteriori carenze dettate dalla cessazione di altri giudici. La Corte può esercitare le funzioni e adottare decisioni soltanto quando almeno 11 dei 15 giudici sono presenti, conformemente al cosiddetto “quorum funzionale”. Se la mancanza del giudice dovesse rimanere fino al 16 dicembre, a partire dal giorno successivo ci sarebbero quattro posti vacanti e il rischio di paralisi diventerebbe una minaccia reale, proprio a ridosso delle decisioni che dovranno essere assunte dalla Corte sulla autonomia regionale differenziata. Anche il temporaneo impedimento a partecipare di un solo giudice, per qualsiasi motivo, bloccherebbe l’attività della Corte, a causa della mancanza del numero minimo dei componenti. È evidente che la politica non può piegare il testo costituzionale ai propri fini e alle proprie esigenze. Ciò vale a maggior ragione se si considera che la situazione in cui la Corte è costretta a lavorare a ranghi ridotti non è certamente meno grave rispetto a quella in cui non riesce del tutto a farlo nell’ipotesi di stallo. Un collegio incompleto (anche per una sola cessazione non seguita da una rapida elezione) viola il valore fondamentale alla base del quorum strutturale che è di 11 giudici: tale numero indica la soglia di funzionamento minima in grado di garantire la presenza di almeno un componente di tutte e tre le estrazioni.

La Corte, così composta, non è in grado di svolgere pienamente la sua funzione, mancando dell’apporto completo di tutte le competenze, esperienze tecniche, sensibilità culturali e ideali che convergono nella predisposizione della decisione elaborata in camera di consiglio. La violazione continuativa del principio di completezza può causare una serie di problemi: sovraccarico di lavoro, rischio di accumulo di arretrati e possibili divisioni interne alla Corte. Queste divisioni possono derivare da una presidenzializzazione delle decisioni, poiché una Corte composta da 14 giudici può arrivare a una decisione risolutiva solo grazie al voto del presidente, che si esprime per ultimo con un voto decisivo in caso di parità. Se i rischi attuali per un’istituzione fondamentale come la Corte costituzionale sono già considerevoli, le criticità aumenterebbero in modo esponenziale se il ritardo nell’elezione del giudice già cessato continuasse fino al prossimo dicembre. In tal caso, il rischio di blocco dell’istituzione diventerebbe quasi certo. Infatti dal 16 dicembre 2024 – se si dovesse protrarre l’assenza del giudice a oggi assente – mancheranno quattro giudici su quindici, e persino l’impedimento temporaneo a partecipare di un solo giudice, a causa di un avvenimento anche banale, potrebbe bloccare i lavori della Corte per mancato raggiungimento del numero minimo di componenti obbligatoriamente presenti per il funzionamento dell’istituzione. La funzione di maggioranze elevate (2/3 dei membri del Parlamento in seduta comune nei primi 3 scrutini, 3/5 per i successivi) è quella di ridurre al minimo la politicizzazione dell’elezione. È importante sottolineare che la democrazia costituzionale impone limiti al potere e alla maggioranza, specialmente quando si tratta di organi di controllo come la Corte costituzionale.

IL CALENDARIO PARLAMENTARE E IL RISCHIO DI UNA LOTTIZZAZIONE DELLA CORTE

L’assegnazione delle cariche basata su logiche partitico-spartitorie comporta una distorsione delle regole costituzionali. Il ritardo nella nomina parlamentare dovrebbe essere risolto con la convocazione da parte del presidente delle Camere riunite in seduta comune, con l’obbligo di votare in modo continuativo, facendo «ripetere ininterrottamente gli scrutini senza sospenderli e senza porre termine alla seduta fino a quando non sia prodotta la maggioranza richiesta». Questo è ciò che avviene, per esempio, nell’elezione del presidente della Repubblica, con la conseguente sospensione dei lavori parlamentari; in tal modo, il Parlamento in seduta comune sarebbe spinto a prendere una decisione rapida per non restare “ostaggio” del suo presidente. Bisogna farlo subito alla ripresa dei lavori parlamentari dopo la pausa estiva. Successivamente altri impegni pressanti possono determinare una condizione di oggettiva difficoltà tale da non garantire continuità istituzionale al lavoro della Corte Costituzionale. Oppure, in alternativa, si può determinare una fretta forzata ad assumere le decisioni di rimpiazzo, qualunque esse siano, pur se alla conclusione dei giochi si dovesse delineare una maggioranza marcata politicamente, fuori dai perimetri di autonomia dei giudici della Corte. Il 16 dicembre prossimo, le Camere saranno impegnate nella discussione di un testo (la legge di bilancio) che poi, molto probabilmente, subirà modifiche attraverso un massiccio emendamento su cui sarà richiesta la fiducia. È probabile che la prima udienza pubblica del 2025 sarà fissata per il 7 gennaio.

Considerando che il calendario tra la sessione di bilancio e le festività natalizie è già estremamente fitto e che mai un giudice di estrazione parlamentare è stato eletto nel rispetto del termine del mese dalla vacanza, è fondamentale affrontare anticipatamente il rischio associato allo stallo del funzionamento della Corte. Dietro l’angolo c’è la possibilità che un organo costituzionale che deve essere indipendente diventi politicizzato. E questo proprio alla vigilia di decisioni importanti che riguardano l’autonomia regionale differenziata, il premierato e la riforma della giustizia.

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