L’interrogatorio di Filippo Turetta non è informazione, è il tribunale del popolo

RMAG news

“In esclusiva il video dell’interrogatorio di Filippo Turetta: il documento mostra, per la prima volta, le dichiarazioni rese dall’imputato il primo dicembre 2023 nel carcere di Verona”. Dopo l’ostensione pubblica dei colloqui in carcere con i propri genitori, con la normalità che oramai caratterizza simili pubblicazioni, la notizia viene diffusa con un malcelato orgoglio.

Stupisce che il fatto di diffondere la registrazione dell’interrogatorio di un giovane indagato in vincoli con l’accusa di essersi reso responsabile di un grave fatto di sangue possa sembrare a qualcuno un gesto di civiltà. O che il dare pubblicità a un atto così delicato del processo possa essere inteso come un sano contributo al diritto di cronaca. Così, crudamente, senza porsi il problema di un qualche bilanciamento e – al di là di ciò che la legge penale dice in proposito – senza porsi alcuna domanda sui limiti stessi del diritto all’informazione. Ci governa, invece, in proposito un frainteso impulso alla manomissione di ogni frontiera, una equivocata idea di trasparenza democratica che vorrebbe il popolo immediato (non mediato) fruitore del senso di giustizia e della sua amministrazione.

Ne discende sul piano della comunicazione una inevitabile ed indebita esposizione mediatica della vita, dell’anima, del volto dell’accusato. Ciò che nasce come un atto processuale coperto da cautele e da particolari garanzie e ritualità, viene sostanzialmente profanato e brutalmente denudato perché il pubblico televisivo ne faccia quel che vuole. C’è da riflettere su quello che simili eventi significano nella rappresentazione sociale della giustizia e nella conseguente brutale involuzione del sistema. Le più volte evocate “tricoteuses” della rivoluzione, erano almeno spettatrici delle sanguinose esecuzioni giunte all’esito di una condanna, mentre alle moderne “tricoteuses” viene data in pasto l’umiliazione dell’accusato nella fase sorgiva dell’inquisizione. Facendo dell’accusa una condanna.

Questo nuovo moderno paradigma sottrae sostanzialmente il processo al suo detentore statuale e lo consegna alle aspettative del popolo, senza mediatori, senza limiti e senza il contributo, ritenuto deformante, di quella casta di avvocati, magistrati e giudici che non hanno alcun diritto di amministrare la giustizia nel nome del popolo. Lo stesso limite posto alla pubblicazione delle ordinanze cautelari è per questo motivo un “bavaglio” all’informazione e un impedimento indebito alla conoscenza di quello stesso pubblico che ha diritto a guardare negli occhi l’indagato in vincoli, di ascoltare le intercettazioni che lo hanno “incastrato” e soprattutto quelle che, pur non essendo prova, ne hanno evidenziato le debolezze caratteriali, gli scadimenti morali, magari le compagnie indebite e i gusti eticamente discutibili. Si tratta, a ben vedere, di una trasparenza indebita e violenta perché unidirezionale in quanto espone alla pubblica gogna chi è ad un tempo privato della libertà e della dignità.

Questo genere di pubblicità somiglia molto di più ad una condanna anticipata degli indagati che al soddisfacimento di un diritto della collettività. I limiti alla pubblicabilità degli atti rispondono a diverse esigenze del processo e dell’ordinamento: la tutela delle indagini, la protezione della verginità cognitiva del giudice, la difesa della presunzione di innocenza. Ma si dovrebbe trattare di un limite ben più ampio di quello previsto dalla riforma, che in fondo non fa altro che ripristinare una norma già presente nel nostro codice. Un limite assistito da ben diverse sanzioni da quelle attualmente previste. Non certo detentive, ma tuttavia serie, di natura pecuniaria, reputazionale, disciplinare, amministrativa.

Ma quel limite dovrebbe anche rispondere ad un limite culturale più ampio e più profondo. Un limite che dovremmo interiorizzare noi tutti e che dovrebbero far proprio soprattutto coloro che sono detentori dell’informazione, facendone un baluardo di civiltà ed un valore indeclinabile della loro stessa professione. Non vi è infatti alcun diritto che non debba essere bilanciato con altri diritti e con altri principi, e non vi è diritto che non debba retrocedere davanti al diritto al rispetto della dignità della persona, di ogni persona, anche di coloro che si fossero macchiati dei più orrendi delitti.

*Presidente dell’Unione delle camere penali italiane

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