Nomine Rai, salta (per il momento) la presidenza di Simona Agnes: la ritirata della Meloni dopo il flop Consulta

RMAG news

La sconfitta secca di martedì nel voto sul seggio di giudice costituzionale ancora vacante si trascina automaticamente dietro quella sulla Rai, che è puntualmente arrivata ieri. Per evitare la figuraccia-bis di un secondo arresto contro il muro delle opposizioni la maggioranza ha disertato la riunione della Commissione di vigilanza Rai che avrebbe dovuto votare sulla candidata del Tesoro alla presidenza del cda Rai, Simona Agnes. Non era mai successo che in quella sede a far mancare il numero legale fosse non l’opposizione ma la maggioranza.

Anche in Vigilanza, come nel voto sul giudice costituzionale, la maggioranza da sola non ce la può fare a raggiungere il quorum, in questo caso i due terzi della Commissione: ha bisogno di un aiutino, in concreto di due voti, da parte dell’opposizione, o di qualche sua componente. Sino a una settimana fa a Chigi regnava un certo ottimismo. Il M5s e Avs, a differenza del Pd, avevano trattato sul cda portandosi a casa ciascuno un consigliere, Alessandro Di Majo per i pentastellati, Roberto Natale per i rossoverdi. Per giorni si sono rincorse voci sulla disponibilità di Conte, sempre smentite però dal leader del Movimento che oltre tutto una mossa del genere in questo momento, con la guerra tra lui e Grillo che infuria, proprio non potrebbe permettersela.

Se c’era ancora qualche spiraglio per quelle due preziosissime defezioni si è chiuso martedì nel voto che ha siglato la prima sconfitta parlamentare vera e in campo aperto di Giorgia Meloni. Dopo quel voto ogni eventuale tentativo di sgusciare di Conte sarebbe visto come alto tradimento. Capitolo chiuso. Ma FI non ha alcuna intenzione di rinunciare alla presidenza Agnes, fortemente voluta dagli azzurri e in azienda da Gianni Letta. Dunque è stallo e non se ne vede la via d’uscita. Anche perché la Lega non ha alcuna fretta di sbloccare la situazione. Col presidente vacante a farne le funzioni è il consigliere più anziano e si tratta di Antonio Marano, leghista della prima ora. La paralisi coinvolge direttamente anche i 5S: fino a che FI tiene duro sulla Agnes e dunque la situazione non si sblocca non si può neppure procedere con le nomine ed è voce onnipresente, anche se Conte smentisce, che di caselle in quota 5S ce ne siano ben due, la direzione del Tg3 e la conferma a quella di Rainews.

Messa così, però, sembra che il partito della premier, FdI, sia del tutto estraneo alle varie contese in corso: quella tra il Pd, che avrebbe voluto applicare l’Aventino anche alla partita Rai e Conte, che si è mosso in direzione opposta, quella tra FI, che non vede l’ora di accaparrarsi la presidenza del cda e la Lega, che vuole mantenerla nelle mani di Marano quanto più a lungo possibile. FdI invece la sua postazione centralissima l’ha già portata a casa con la nomina del direttore generale Giuseppe Rossi, dunque sembra guardare le botte da orbi tra tutti gli altri dagli spalti. Non è così però e lo scontro nel partito tricolore non riguarda la spartizione delle poltrone e degli incarichi ma una strategia politica di ben più ampio respiro. Con la doppia sconfitta della maggioranza degli ultimi giorni è arrivato al pettine, come era prima o poi inevitabile, il nodo del dialogo e della trattativa con l’opposizione. Alla premier la sola idea fa venire l’orticaria, essendo in contrasto con la sua visione della democrazia, dirigista e pochissimo attenta ai contrappesi, che pure nella nostra Costituzione come in ogni democrazia propriamente detta sono quasi quanto di più essenziale.

Ma quella trattativa è necessaria quando si tratta di organismi di garanzia, per la nomina dei quali la mediazione tra maggioranza e opposizione dovrebbe essere automatica, e soprattutto quando da sola la destra non ce la può fare. Capita appunto quando, trattandosi di istituti di garanzia, si richiedono maggioranze qualificate.  Nel partito tricolore c’è chi spinge perché la premier si decida ad aprire quel canale di dialogo, segnatamente il sottosegretario Mantovano, e c’è chi invece insiste per proseguire nella prova di forza, ad esempio tentando di forzare ancora la mano sulla nomina di Marini alla Consulta in una nona votazione invece di aspettare dicembre, quando di giudici costituzionali bisognerà sceglierne non più uno ma quattro e si potrà dunque trattare più facilmente.

A decidere sarà la premier, che però al momento non riesce a farlo e quella che comincia a emergere è una difficoltà appena dissimulata nel reggere le redini non solo della coalizione ma anche del partito. Lo scontro tra i falchi e le colombe sulle nomina paralizza tutto. I rapporti con il ministro Crosetto, cofondatore di FdI con Giorgia, sono ai minimi storici, tanto che il ministro diserta da settimane le riunioni del cda. La spina Santanchè, ministra ben decisa a negare dimissioni che per la premier e per l’immagine del governo sarebbero provvidenziali, resta lì, piantata nel fianco della leader. Prima o poi Meloni dovrà decidersi a fare i conti anche con il partito. Non Giorgia però: piuttosto Arianna. Nella spartizione tra sorelle, il partito è cosa sua.

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