Perché l’ex Pm Gioacchino Natoli che indagava sulle stragi è sotto accusa: “Ha aiutato i mafiosi”

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Il pm di Palermo Gioacchino Natoli, ex componente del Pool che indagava sulle stragi di Cosa nostra avvenute nel biennio 1992-93, è indagato dalla Procura di Caltanissetta per i reati di favoreggiamento alla mafia e calunnia. Domani mattina è previsto il suo interrogatorio. “Sono stato e sono un uomo delle istituzioni e ho piena fiducia nella giustizia. Darò senz’altro il mio contributo nell’accertamento della verità”, ha commentato ieri il diretto interessato. La notizia, quanto mai inquietante, apre nuovi scenari a proposito dell’inchiesta mafia-appalti, svolta nel capoluogo siciliano agli inizi degli anni ’90, e che sarebbe stata il vero movente della strage costata la vita a Paolo Borsellino il 19 luglio del 1992 a via D’Amelio.

A Natoli, in particolare, i pm contestano di non aver indagato sull’indagine avviata dalla Procura di Massa Carrara e confluita proprio nel procedimento mafia-appalti per favorire esponenti mafiosi come l’imprenditore palermitano Antonino Bonura. Natoli avrebbe agito in concorso con l’ex procuratore di Palermo Pietro Giammanco, nel frattempo deceduto e mai interrogato su questa vicenda, e con l’allora capitano della guardia di Finanza Stefano Screpanti. Nell’invito a comparire notificato a Natoli, di cui si è avuto notizia ieri, Giammanco viene definito dai pm nisseni come “istigatore”. Secondo l’accusa, Natoli avrebbe aiutato i mafiosi Antonino Buscemi e Francesco Bonura, l’imprenditore e politico Ernesto Di Fresco e gli imprenditori Raul Gardini, Lorenzo Panzavolta e Giovanni Bini (gli ultimi tre al vertice del Gruppo Ferruzzi) ad eludere le indagini. Al magistrato viene addirittura contestato di aver svolto una “indagine apparente”, richiedendo, tra l’altro, “l’autorizzazione a disporre attività di intercettazione telefonica per un brevissimo lasso temporale (inferiore ai 40 giorni per la quasi totalità dei target) e solo per una parte delle utenze da sottoporre necessariamente a captazione, per assicurare un sufficiente livello di efficienza delle indagini”.

Come se non fosse già grave, Natoli avrebbe anche disposto, d’intesa con Screpanti che provvedeva in tal senso, “che non venissero trascritte conversazioni particolarmente rilevanti, da considerarsi vere e proprie autonome notizie di reato, dalle quali emergeva la “messa a disposizione” di Di Fresco in favore di Bonura, nonché una concreta ipotesi di “aggiustamento”, mediante interessamento del Di Fresco stesso, del processo pendente innanzi alla Corte d’Assise di Appello di Palermo, sempre a carico di Bonura per un duplice omicidio”. Natoli, poi, non avrebbe aperto alcuna indagine nei confronti dell’imprenditore Luciano Laghi e dell’imprenditore Claudio Scarafia, “sebbene i due fossero risultati a completa disposizione di Bonura e dei suoi familiari” e avrebbe chiesto l’archiviazione del procedimento “senza curarsi di effettuare ulteriori approfondimenti e senza acquisire il materiale concernente le indagini effettuate dalla Procura della Repubblica di Massa Carrara”. “Per occultare ogni traccia del rilevante esito delle intercettazioni telefoniche – si legge ancora nell’imputazione firmata dal procuratore Salvatore De Luca, dall’aggiunto Pasquale Pacifico e dai pm Davide Spina e Claudia Pasciuti – avrebbe disposto la smagnetizzazione delle bobine e la distruzione dei brogliacci”.

I reati sarebbero stati commessi con l’aggravante di aver agito al fine di favorire l’associazione mafiosa ”con riferimento agli interessi della stessa nel settore dell’aggiudicazione degli appalti (operazione gestita unitamente al mondo imprenditoriale e a quello della politica)”. Natoli, dopo essere stato componente del pool insieme a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, divenne presidente della Corte d’appello di Palermo e componente del Consiglio superiore della magistratura. L’ultimo incarico prima di andare in pensione è stato quello di capo Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria a via Arenula. La svolta di Caltanissetta conferma allora quanto sostenuto in questi anni dall’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino e marito della figlia Fiammetta. E cioè che dietro le stragi del 1992- 93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa nostra di impedire ogni inchiesta sul monopolio degli appalti. Il fascicolo in questione, nell’agosto del 1991, venne trasmesso per competenza alla Procura di Palermo da Augusto Lama, allora sostituto a Massa Carrara.

Il pm aveva messo nel mirino presunti rapporti tra la mafia siciliana e il gruppo Ferruzzi, in quel periodo proprietario della Sam-Imeg, società che controllava la maggior parte delle cave e della lavorazione del marmo a Carrara. Il fascicolo, come scrivono i pm di Caltanissetta, fu però archiviato a Palermo il primo giugno del 1992, subito dopo la strage di Capaci e le relative intercettazioni furono smagnetizzate. A Carrara, Antonino Buscemi aveva preso il controllo delle cave e a gestirle aveva mandato il cognato, Girolamo Cimino insieme a Rosario Spera, un suo parente. Nel dossier mafia appalti, redatto dai carabinieri del Ros del generale Mario Mori e archiviato dopo la strage di via D’Amelio, comparivano diverse aziende che avrebbero avuto legami con i corleonesi di Totò Riina. Tra queste, appunto, la Calcestruzzi Spa di Raul Gardini. Tra l’altro, lo stesso Borsellino ebbe conferma del coinvolgimento di tale impresa durante l’interrogatorio a luglio del 1992 del pentito Leonardo Messina.

“La mafia è entrata in borsa”, dirà Falcone quando il gruppo Ferruzzi era stato quotato a Piazza Affari. In quel periodo il gruppo Ferruzzi, comprato e trasformato da Raul Gardini in un super polo dopo la fusione con la Montedison, era il secondo gruppo industriale privato italiano con ricavi per circa 20.000 miliardi di lire, con 52.000 dipendenti e più di 200 stabilimenti in tutto il mondo. I rapporti tra Ferruzzi e la mafia furono ben argomentati nella richiesta di archiviazione presentata il 9 giugno 2003 dall’allora procuratore di Caltanissetta Francesco Messineo per uno dei filoni dell’inchiesta sulle stragi di Capaci e via D’Amelio nel quale si affrontò anche il suicidio di Gardini. A guidare quest’ultimo sarebbe stato un vecchio socio di suo suocero Serafino Ferruzzi, Lorenzo Panzavolta, detto ‘Il Panzer’, comandante partigiano, dirigente delle cooperative rosse di Ravenna e presidente della Calcestruzzi, il quale gli avrebbe detto che c’era la possibilità di avere tutti gli appalti pubblici in Sicilia avendo rapporti con i fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, molto legati a Riina e che dal 1982 erano entrati direttamente nella società ravennate.