Togliatti e il PCI, la sua personale creazione: con lui passò in due anni da 6mila a 2 milioni di iscritti

RMAG news

Nell’immaginario di chi rimpiange o ha comunque nostalgia del Partito comunista italiano, il volto che di quel partito è simbolo è quasi sempre quello di Enrico Berlinguer, assurto negli ultimi decenni a vera icona. E’ per molti motivi comprensibile ma è anche sbagliato. Il Pci è una creazione di Palmiro Togliatti come la stessa Italia repubblicana, che fu modellata più che da ogni altro da quel Pci e dalla Dc di Alcide De Gasperi. Non è esagerato dire che il Pci dal dopoguerra in poi è stato una creazione personale di Togliatti. Il segretario fece quasi tutto da solo. Decise senza essere affiancato da un gruppo dirigente, i cui principali esponenti dopo di lui, Luigi Longo e Pietro Secchia, erano in realtà di avviso opposto, e senza il semaforo verde del leader incontrastato e adorato del movimento comunista mondiale, Stalin, che tuttavia non dovette essere troppo contrariato dalla svolta del leader che era stato tra i massimi dirigenti della Terza Internazionale.

Quando l’uomo conosciuto con il nome di battaglia Ercole Ercoli tornò nel suo Paese il 27 marzo 1944, non lo conosceva personalmente quasi nessuno. Era in esilio da 18 anni. Era il capo indiscusso del Pci dal 1927, anche se per quattro anni, dal 1934 al 1938, aveva lasciato la segreteria, ma non la leadership effettiva, a Ruggero Grieco per assumere la rappresentanza del Comintern, la Terza Internazionale. Ma l’uomo dall’apparenza poco vistosa, con gli occhialini tondi e la voce un po’ chioccia, godeva comunque di una immensa popolarità: era l’uomo di Mosca, l’ “amico di Stalin”. Il capo di un partito che in un paio d’anni, quelli della guerra civile, era passato da 6mila a quasi 2 milioni di iscritti. Solo quell’aura sacrale gli consentì di mantenere la fiducia della base anche dopo la decisione, tanto lungimirante quanto difficile, di concedere l’amnistia ai fascisti di Salò, nel 1946, in veste di ministro della Giustizia.

La “svolta di Salerno” il biglietto da visita con il quale Ercoli si presentò all’Italia era in realtà stata concordata con Stalin e in buona parte decisa dall’onnipotente segretario del Pcus. Rinviava a data da destinarsi la resa dei conti con la monarchia, metteva da parte le richieste di riformare le istituzioni italiane per assegnare prevalenza assoluta alla lotta contro il nazifascismo. Spalancava le porte, di conseguenza, alla collaborazione con gli altri partiti democratici, non solo il Psi ma anche quelli “borghesi” fino alla vittoria e oltre. Ma se la svolta di Salerno era stata certamente decisa con il pieno sostegno di Stalin, le altre trasformazioni che Togliatti operò nel partito erano invece una sua scelta e risentivano certamente della lezione di Antonio Gramsci, nonostante le tensioni che tra i due leader c’erano state dopo la vittoria del fascismo e l’arresto di Gramsci. Rispetto al modello bolscevico che Mosca aveva poi imposto all’intero movimento comunista nel mondo si trattava di una vera rivoluzione copernicana.

Partito di massa invece che di quadri ben selezionati. Il segretario in persona curò meticolosamente e di persona, con energia instancabile, l’affermazione di un partito onnipresente nella società italiana. Revisionava personalmente gli articoli dell’Unità con interventi non solo sulla sostanza ma anche sullo stile. Dettava lo stile con cui i dirigenti del partito dovevano presentarsi al popolo. E’ esemplare la sfuriata che dovette subire il vicesegretario Longo per non aver saputo rispondere alla domanda sul risultato di una importante partita: “Che razza di dirigente di un partito di massa sei se non sai queste cose?”. Strategia delle alleanze sociali che non puntava più solo sui contadini come alleati eminenti del proletariato ma guardava ai ceti medi, e non più immaginando una loro futura “proletarizzazione” ma per quel che erano nel presente e sarebbero probabilmente rimasti. E’ in questa cornice, oltre che nella concezione gramsciana della conquista dell’egemonia, che va inquadrata l’estrema attenzione che il segretario riservò nel dopoguerra agli intellettuali, pur mantenendo sempre fisso il primato della politica e della linea di partito.

Abbandono della prospettiva insurrezionale a favore di un lungo lavoro di trasformazione della società tramite riforme “di struttura”, orizzonte che contemplava non solo l’adesione attiva ed entusiasta alla Costituente ma anche una possibile collaborazione stabile con gli altri due partiti di massa, che entrambi avevano preso più voti del Pci nelle elezioni del 1946 per l’Assemblea Costituente, la Dc e il Psi. Chiedersi se quella di Togliatti era tattica o strategia, se si trattava cioè di doppiezza imposta dalle circostanze che non permettevano alternative o di sincera adesione al metodo democratico, è insensato. Togliatti non era un teorico, era un politico a tutto tondo, misurarsi e considerare ciò che non era realistico non faceva parte della sua natura.

E’ probabile che il leader comunista scommettesse su una fase di collaborazione con gli altri due partiti di massa molto più lunga anche se a un politico di eccezionale acume come lui non doveva essere sfuggito il senso dell’imposizione degasperiana che impediva alla Costituente di funzionare anche come potere legislativo, il vero ostacolo che depotenziò la strategia togliattiana di riformare il sistema “dall’interno” negli anni precedenti la guerra fredda e la rottura della “alleanza tripartita” e l’estromissione del Pci dal governo. Ma anche dopo la rottura, nel clima esasperato della guerra fredda, Togliatti fu sempre tassativo nel tenere a bada ogni fantasia insurrezionalista e ogni tentazione di scontro frontale. Non solo nel 1947, dopo l’occupazione armata della prefettura di Milano guidata da Pajetta ma stigmatizzata e ridicolizzata da Togliatti durante le proteste per la rimozione del prefetto Troilo: Pajetta dovette sopportare per anni il sarcasmo del leader: “Allora, come va oggi la rivoluzione?”. Non solo nella fase preinsurrezionale che seguì l’attentato contro di lui, il 14 luglio 1948, ma anche alla viglia dell’approvazione della cosiddetta “legge truffa”, la riforma elettorale voluta dalla Dc nel 1953.

Al modello unico dell’Urss, Togliatti contrapponeva il “policentrismo”, la concezione cioè in base alla quale ogni Paese poteva e doveva trovare la propria strada e il proprio metodo per la costruzione del socialismo. Ma “contrapposizione” è un termine quasi fuori luogo per un leader che invece voleva innovare senza mai contrapporsi. Nei suoi discorsi del dopoguerra c’è un solo accenno, fugace e poi abbandonato negli anni della guerra fredda, alla “via italiana al socialismo”. Ne riparlerà, in modo esplicito solo dopo il 1956 e il XX Congresso. Quel congresso del Pcus è giustamente passato alla storia per il rapporto segreto, che non rimase tale a lungo, di Krusciov sullo stalinismo e i suoi danni immensi. Ma la relazione ufficiale del segretario del Pcus fu per alcuni versi non meno importante. Il leader del partito guida ammetteva che la strada seguita dall’Unione sovietica non era l’unica praticabile e così facendo aprì le porte a quella “via italiana al socialismo” lungo la quale Togliatti già procedeva ma senza sbandierarlo affatto.

Su Stalin e sui danni del culto della sua personalità, il cuore del rapporto di Kruscev, il segretario del Pci tentò di glissare quanto più a lungo possibile, nonostante lo sconcerto e lo smarrimento di una base che era abituata a considerare Stalin perfetto. Si decise a rompere il silenzio solo quando non fu più possibile mantenerlo, dopo la pubblicazione sul New York Times della relazione segreta di Krusciov, che probabilmente era stata fatta pervenire al quotidiano proprio dal Cremlino. Togliatti, come sempre, si mosse con estrema prudenza, rivendicando tutti i capitoli salienti della storia dell’Urss, ricordando il consenso sincero che aveva circondato Stalin che “fece molti errori ma anche molte cose buone” e sottolineando che addossare solo al dittatore ogni degenerazione avrebbe significato riproporre, rovesciata, la stessa ottica che aveva portato al culto della sua personalità. Era invece necessario indagare “i problemi veri”, cioè come e perché “la società sovietica potè giungere e giunse a certe forme di allontanamento dalla vita democratica e dalla legalità che si era tracciata e persino di degenerazione”.

Ai sovietici quell’accenno a una “degenerazione” non piacque affatto e lo misero nero su bianco in una replica cortese ma acuminata. Non era la prima tensione, non sarebbe stata l’ultima. I sovietici avevano imposto la nomina di Pietro Secchia, uno dei meno convinti dalla svolta togliattiana, a responsabile dell’organizzazione e vicesegretario con Longo. Togliatti riuscì a sbarazzarsene nel 1955, complice la mossa azzardata del collaboratore strettissimo di Secchia, Giulio Seniga, che aveva trafugato documenti e parte dei fondi segreti del partito come gesto politico antitogliattiano. Lo fece con tutta la gelida spietatezza di un comunista che si era formato negli anni della grandi purghe staliniane. Ma evitò sempre ogni contrapposizione esplicita con Mosca, sia prima che dopo la morte di Stalin, e quando i dirigenti più giovani del partito gli sembrarono troppo vicini a quel punto di rottura minacciò di dar vita a una propria mozione congressuale e di sostenerla personalmente: quanto bastava per tacitare ogni velleità antisovietica.

Quanto di più vicino a una elaborazione esplicita delle critiche all’Urss per non aver ripristinato le libertà cancellate da Stalin e a una rivendicazione aperta della sua visione, autonomia dei singoli partiti, “unità nella diversità” del movimento comunista, vie nazionali e pacifiche al socialismo, è contenuta nell’ultimo documento vergato da Palmiro Togliatti. Era in Crimea a Yalta, ufficialmente per riposarsi, in realtà mirava probabilmente a intervenire in veste di mediatore nello scisma che travagliava allora il mondo rosso, quello tra Russia e Cina. Scrisse e poi dettò una serie di appunti destinati a Kruscev. Subito dopo fu colpito da un ictus seguito da emorragia cerebrale che lo uccisero a 71 anni. Il Memoriale fu pubblicato due settimane dopo in Italia da Rinascita e poi anche nell’Urss dalla Pravda. Quegli appunti erano stati scritti per affrontare un problema specifico anche se enorme, la rottura tra i due principali Paesi comunisti del mondo, e non immaginando che sarebbero poi diventati di pubblico dominio. Forse anche per questo riassumono meglio di qualsiasi altro documento la singolare identità, e nello stile paludato anche tutte lo residue ambiguità, del Partito Comunista Italiano.

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