Treni ai privati, chi paga il conto?

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Il Quotidiano del Sud
Treni ai privati, chi paga il conto?

Treni ai privati: il Mef vuole mettere sul mercato il 40% del gruppo. Ecco i nodi da sciogliere per evitare gli errori del passato

Questa estate è caratterizzata dai disservizi, dai ritardi e dai cantieri delle ferrovie italiane. Ciclicamente, questa grande impresa pubblica, strategica per il nostro Paese, entra in una spirale di crisi, e la gran parte delle volte accade quando la politica torna a mettere le mani sulla gestione, non solo sulle nomine di vertice, ma anche sugli ingranaggi complessivi dell’azienda, oltre che sugli assetti fondamentali di governo industriale.

I politici vengono periodicamente dominati dalla tentazione di indossare il cappello rosso di capostazione con fischietto e paletta, invece di adottare la prudenza del buon padre di famiglia, che consiste nel selezionare un gruppo dirigente competente ed esperto nel settore.
Evidentemente, le lezioni dei passati decenni non sono servite a comprendere che serve certamente una rotta strategica dell’azionista, ma che poi alla guida del convoglio ferroviario devono essere lasciate persone adeguate professionalmente ed indipendenti.

Al ritorno del Manuale Cencelli nelle nomine, corrisponde anche una decisione particolarmente gravida di conseguenze, vale a dire la privatizzazione di una quota rilevante del capitale dell’azienda ferroviaria, oggi totalmente pubblico. Il combinato disposto di questi due vettori di trasformazione condurrebbe alla implosione di uno dei pochi soggetti economici che nei recenti decenni ha giocato un ruolo propulsivo, con la realizzazione di importanti investimenti ed anche con un deciso miglioramento nei risultati della gestione.
Venti miliardi di euro corrispondono ad un punto percentuale di PIL: è questo l’obiettivo che il Governo Meloni intende raggiungere mediante un nuovo programma di privatizzazioni entro il 2026. L’obiettivo è stato fissato nella Legge di Stabilità approvata dal Parlamento lo scorso anno. Insomma, la scelta non è nuova: fare cassa con la vendita di quote delle aziende pubbliche. Gli esiti di questo approccio, negli anni Novanta del secolo passato, sono stati nefasti. Evidentemente non si impara mai.

Uno nodo di fondo sarà, ancora una volta, il controllo delle infrastrutture, che ha rappresentato nel passato terreno di errori marchiani, che hanno danneggiato la competitività dell’economia italiana. Il boccone più prelibato del prossimo piano di privatizzazioni è il Gruppo Ferrovie dello Stato. Non è la prima volta che accade. Il governo che arrivò ad un passo dal mettere sul mercato Ferrovie dello Stato fu quello di Matteo Renzi. Correva il novembre del 2015. L’operazione di privatizzazione delle ferrovie presenta notevoli complessità tecniche, ma riveste grande interesse, sia sul versante del decisore pubblico sia su quello del mercato.

Letta con gli occhi dei politici l’azienda, tra le grandi società pubbliche privatizzabili, è l’ultima di cui lo Stato possiede ancora il cento per cento: collocare sul mercato quote di minoranza consente comunque di fare cassa in modo consistente. Visto con gli occhi del mercato, il business ferroviario richiama l’attenzione potenziale di molti investitori.
Otto anni fa il 40 per cento del Gruppo Ferrovie era stimato pari a quattro miliardi di euro, più o meno il valore odierno dell’intera Italo. Per acquistare il 50 per cento di Italo, Gianluigi Aponte, proprietario del Gruppo MSC, ha recentemente sborsato al fondo americano Global Infrastructure Partners due miliardi. Il collocamento sul mercato del 40% di ferrovie permetterebbe di realizzare un quarto della complessiva promessa di incasso da privatizzazioni iscritta nelle previsioni di bilancio.

La questione fondamentale sta nel destino della rete ferroviaria, che è un monopolio naturale e non può essere destinata, secondo i principi della teoria economica, a passare di mano dal pubblico al privato. Il caso di privatizzazione della infrastruttura ferroviaria inglese dovrebbe essere la prova definitiva che assegnare ai privati la proprietà e la gestione della rete costituisce un errore capitale.
I laburisti hanno recentemente vinto le elezioni politiche inserendo tra i punti qualificanti del programma il ritorno ad un sistema ferroviario completamente in mano pubblica. La proposta, denominata “Getting Britain Moving: Il piano laburista per risanare le ferrovie britanniche” pone grandi aspettative per i servizi passeggeri, ma getta anche i riflettori sul settore merci e suggerisce cambiamenti significativi nella governance e nelle operazioni.

Al centro della strategia laburista c’è la creazione di Great British Railways (GBR), un ente pubblico progettato per centralizzare e razionalizzare le operazioni ferroviarie. Questo passo verso la rinazionalizzazione si pone come rimedio alla frammentazione causata dalla privatizzazione, con l’obiettivo di migliorare l’efficienza e la responsabilità della rete ferroviaria.
Le caratteristiche principali del piano laburista riguarda da un lato il ritorno alla proprietà pubblica, con passaggio degli attuali operatori privati al controllo pubblico, con l’obiettivo di ridurre i costi delle tariffe e migliorare l’affidabilità del servizio, e dall’altro massicci investimenti nell’infrastruttura e nei servizi, ponendo l’accento sulla modernizzazione dell’infrastruttura ferroviaria e sull’introduzione di tecnologie avanzate per una migliore gestione dei servizi.

Affrontare la questione della privatizzazione di ferrovie in Italia, tenendo conto anche degli scenari che si prospettano a livello internazionale, richiede, per il fatto che la rete è un monopolio naturale, di superare la gestione integrata ed unitaria del Gruppo. Questo modello è compatibile esclusivamente con la proprietà pubblica.
In uno scenario di privatizzazione, andrebbe prima effettuata una operazione di scissione di RFI, la società della infrastruttura, individuando anche quegli altri asset strategici di rete che non possono essere collocati sul mercato, come gli scali passeggeri e merci.

Poi, diradate le nebbie dagli errori potenziali sulla cessione ai privati della rete assieme all’intero Gruppo, occorre chiarire le regole del gioco per la privatizzazione, anche parziale, dei servizi ferroviari. Non è neanche ipotizzabile, per evidenti questioni antitrust, che Gianluigi Aponte, dopo aver acquisito il controllo di Italo, il secondo operatore dell’alta velocità, possa diventare azionista di riferimento della società oggi pubblica che opera i servizi alta velocità.
Dopo aver messo in concorrenza negli anni passati il monopolista pubblico con un operatore privato, tornare al monopolio, stavolta privato, sarebbe il solito, imperdonabile, pasticcio all’italiana. Una eterogenesi dei fini che sarebbe oltretutto imbarazzante per una maggioranza di governo che declama la retorica del libero mercato e della competizione, salvo poi a praticare la difesa delle corporazioni private e l’indebolimento dei soggetti pubblici.

In questi decenni le ferrovie non sono riuscite a dare impulso in Italia alla crescita del trasporto merci. Non c’è riuscita nemmeno la liberalizzazione, anche se i nuovi entranti oggi raggiungono quasi la metà dei volumi movimentati per ferrovia. Sono mancati investimenti di adeguamento della infrastruttura capaci di consentire l’operatività di treni a standard europeo, con 750 metri di lunghezza ed un peso di 2.000 tonnellate. Il settore è rimasto in una condizione di minorità rispetto alle altre modalità di trasporto. Sarebbe necessaria la concentrazione di investimenti robusti e di tempi non immemori per dare una svolta ai servizi ferroviari merci. Non se ne parla, purtroppo. Recentemente in Spagna è stato privatizzato il ramo di azienda del trasporto ferroviario merci. Manco a dirlo, l’acquirente si chiama Gianluigi Aponte, in omaggio evidentemente alla logica di un mercato che deve evitare come la peste le concentrazioni.

Poi c’è la questione dei servizi ferroviari regionali, che trovano il proprio equilibrio economico principalmente attraverso i corrispettivi dei contratti di servizio pubblico. Da un quarto di secolo, non si è ancora realizzata in Italia la prevista concorrenza per il mercato tra differenti operatori. Pare difficile immaginare che la privatizzazione del ramo di azienda del trasporto ferroviario regionale possa essere veicolo di liberalizzazione. Gli eventuali azionisti privati vorrebbero garanzie per la protezione del valore economico investito.
Dobbiamo chiederci se la tutela dell’interesse pubblico stia nella privatizzazione della proprietà o nell’avanzamento verso la liberalizzazione. Darsi come obiettivo l’incasso economico di corto raggio, senza interrogarsi sulle conseguenze strategiche per il sistema ferroviario nel futuro, sarebbe un errore marchiano. Mentre assistiamo a questa estate di disservizi, dobbiamo prepararci ad un autunno di discussione sul modello di privatizzazione delle ferrovie italiane.

Non parlarne nemmeno, realizzando, come è nei piani del Governo, la cessione del 40% del capitale del Gruppo nel suo insieme, sarebbe una scelta destinata a generare danni gravissimi anche per la coesione territoriale e per la rete dei collegamenti nel nostro Paese. Un soggetto privato, che diventi azionista di qualificata minoranza anche della rete ferroviaria, avrebbe la irresistibile tentazione di concentrare l’offerta laddove la domanda è più densa, e maggiore è la disponibilità a pagare. Per il Mezzogiorno sarebbe un altro colpo gravissimo alla già precaria condizione di competitività. Altro che ZES unica: attrarre investimenti produttivi richiede infatti una rete di trasporti ed un sistema di logistica di assoluta qualità, non la rarefazione dei collegamenti.

Il Quotidiano del Sud.
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