Zelensky come Putin, col rimpasto vuole un governo a sua immagine e somiglianza”, parla Marco Tarquinio

RMAG news

Marco Tarquinio, europarlamentare, già direttore di Avvenire: Riconosceteci finché la Palestina esiste ancora. È l’appello disperato che il ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese, Riyad al-Maliki, ha lanciato dalle colonne de l’Unità. Se non ora, quando?
Non c’è altro “quando” che questo. Ora, dunque. Con la consapevolezza di essere in ritardo di almeno 31 anni. Penso da decenni, ho sostenuto e confermo che l’Europa comunitaria, e tutti i Paesi membri di quella che oggi chiamiamo Ue, avrebbero dovuto riconoscere lo Stato di Palestina accanto allo Stato d’Israele sin dal 13 settembre 1993 quando vennero definitivamente e ratificati gli Accordi di Oslo stretti da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat. Rabin venne assassinato proprio per questo due anni dopo, e ad Arafat non sono bastate le “sette vite” che gli venivano accreditate per vedere un giorno così solenne e giusto. Riconoscere ora la Palestina vorrebbe dire che la speranza è più forte della morte dispensata a piene mani dai signori della guerra e del terrore.

Alla mattanza di Gaza si aggiunge la colonizzazione forzata da parte d’Israele della Cisgiordania. Questo giornale l’ha denunciato: il governo peggiore nella storia d’Israele sta cancellando la Cisgiordania per realizzare il “Regno di Giudea e Samaria”. E l’Europa sta a guardare.
L’Europa sta a guardare e fa risuonare una voce purtroppo flebile perché incrinata dai distinguo di diversi Stati membri, ma soprattutto perché lontana dai tavoli della trattativa ai quali – oltre alle parti in causa Israele e Hamas, che vi partecipano con reticenza, intermittenza e più di un artifizio – siedono solo Stati Uniti d’America, Egitto e Qatar. La Ue ha mostrato buone intenzioni e speso una voce anche intonata e intelligentemente modulata, a differenza di quanto accade nella guerra russo-ucraina. Tuttavia non incide. E intanto si uccide, anzi si massacra, facendo emergere in maniera sanguinosa e persino ostentata il progetto del premier israeliano Netanyahu e dei suoi alleati fondamentalisti ebraici di

Si dice: l’unica soluzione è una pace fondata su “due popoli, due Stati”. Ma a fronte della “giudeizzazione” della Cisgiordania, dove e come potrebbe nascere uno Stato di Palestina?
La domanda ha senso. Così come avrebbe avuto probabilmente senso sin da principio, nel 1948, costruire uno Stato per due popoli. Ma la storia non si fa con i se. E oggi ha ancora più senso sancire, mentre la guerra di Netanyahu infuria, che non si tratta di una guerra tra uno Stato, Israele, e il “nulla”. Gli ebrei israeliani vivono da 76 anni, nello Stato che hanno costruito, il terribile assedio della guerra. I palestinesi vivono la stessa condizione ma sono un popolo senza Stato e ormai quasi senza più terra. Non mi stanco di ripetere che bisogna far finire tutto ciò, e che bisogna cancellare questa drammatica asimmetria. È molto importante che questa sia la linea chiaramente indicata dal Pd di Elly Schlein con il quale sono state eletto da civico al Parlamento europeo.
Si affermi, dunque, l’esistenza in vita dello Stato di Palestina. E lo si faccia nonostante tutto. Nonostante il “domicidio” di Gaza. Nonostante lo sconvolgimento a forza di muri e reticolati della Cisgiordania. E a partire da questo riconoscimento solenne si facciano anche i conti, finalmente, con il divoramento della terra palestinese attraverso la malizia e la violenza degli insediamenti illegali dei coloni israeliani. Le cose, poi, non saranno di colpo semplici, la fatica della convivenza e della pace resterà durissima, ma sarà chiaro che se la grande strage di ebrei israeliani compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023 è una ferita per tutte e tutti, l’orrore che continua ad accadere a Gaza e in Cisgiordania è totalmente inaccettabile. Una disumanità che non deve essere più tollerata.

Altro fronte caldo resta quello russo-ucraino. Come leggere il megarimpasto di governo imposto da Zelensky?
La contro-invasione ucraina nel distretto russo di Kursk non ha cambiato le sorti della guerra, ma ha avuto un effetto devastante anche sulla politica di Kyiv oltre che sulla propaganda putiniana, che tenta di dissimulare il grave peso dell’«operazione militare speciale» per Mosca e per la società russa. L’ex capo della diplomazia ucraina Kuleba stava tentando, escluso dalla cerchia dei pochi fedelissimi informati della nuova tempesta in arrivo, di dare una chance alla conferenza di pace convocata per novembre nella capitale del Paese aggredito, portando al tavolo pure gli emissari di Russia e Cina. L’escalation ha cancellato la chance di farcela e ha aperto rischiosamente una nuova fase. E il presidente Zelensky, con il gran rimpasto di governo appena realizzato, ha modellato definitivamente a sua immagine somiglianza il vertice ucraino. Proprio come ha sempre fatto Putin al Cremlino e negli altri centri di potere politico ed economico moscoviti.

Siamo e restiamo in bilico…
Continuiamo a ballare sull’orlo dell’abisso. E anche qui l’Europa sembra attendere o subire indicazioni e mosse altrui, a partire dalla scelta della nuova o del nuovo presidente Usa, piuttosto che assumere una iniziativa politico-diplomatica utile e forte. E adesso il pallino sembra destinato a finire nelle mani dell’Arabia Saudita. Va bene chiunque. Arrivo a dire: va bene tutto. Purché si apra una via di negoziato e di pace e si facciano tacere le armi e si fermino stragi e distruzioni. Ma noi europei dobbiamo saper fare il nostro mestiere di cittadini e protagonisti di una “potenza pacifica”, uscendo dal ruolo gregario e bellicista al quale ci siamo consegnati in un mondo segnato dalle ferite aperte di troppe guerre.

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