Dujisin, l’uomo di Allende, di Szabo e di tutte le battaglie

RMAG news

A Lisbona è morto mercoledì 31 luglio il giornalista cileno Mario Dujisin, stroncato da una delle tante polmoniti cui il suo corpo titanico aveva altre volte resistito con tenacia, dopo aver sconfitto un cancro. A molti il suo nome non dirà niente. Lo presento subito : si tratta dell’ultimo portavoce e capo ufficio stampa di Salvador Allende. Il vero braccio destro del presidente cileno assassinato l’11 settembre 1973. Dujisin era cileno ma non solo : un mix genetico, sociale, professionale, psicologico e storico.

Nipote di immigrati jugoslavi (croati dell’Adriatico), è rimasto fedele a quella eredità per tutta la vita, forse perché ha studiato a Belgrado e parlava fluentemente il serbocroato. La sua fedeltà era familiare, ma anche politica, al paese socialista in cui visse, con il maresciallo Tito, il costruttore di un esperimento unico, distrutto con sangue e fuoco dalla NATO. Rientrò dalla Jugoslavia per unirsi, nel 1971, all’ufficio stampa internazionale del governo del presidente Salvador Allende, un ruolo vitale per esporre al mondo l’esperimento cileno che attirava giornalisti da tutto il mondo. Ha vissuto quel periodo di tre anni nell’epicentro del dramma: il Palazzo presidenziale de La Moneda. Era il personaggio ideale per quel ruolo: giovane, poliglotta, con esperienze in tutto il mondo, estroverso, simpatico e profondamente astuto. Oggi, sua figlia Anette racconta che stanno arrivando decine di messaggi affettuosi da tutto il mondo, da varie generazioni, con posizioni politiche opposte. Non mi sorprende: chiunque abbia passato cinque minuti con Dujisin non lo dimenticherebbe mai.

Dopo il colpo di stato del 1973, andò in esilio prima in Argentina, poi in Italia e in Ungheria, dove partecipò a un corso dell’Unione Internazionale dei Giornalisti. E lì incontrò la leggendaria Katy. Secondo Mario, fu organizzato un concorso nazionale in cui il primo premio era lui, e Katy fu la vincitrice. Più probabilmente fu il contrario. Katalyn Muharay, sociologa e di una bellezza inusuale, lavorava come assistente di Istvan Szabo, il più importante regista della storia del cinema ungherese. E lasciò tutto per seguire le avventure di questo gitano che non ha mai promesso, né cercato, ricchezze materiali. Nel 1974 Dujisin si trasferì a Lisbona, allora scenario di una delle rivoluzioni più belle della storia, quella dei capitani, dei garofani rossi, il 25 aprile di quell’anno, che abbatté la dittatura fascista portoghese e aprì la strada alla decolonizzazione di vasti territori in Africa. Non poteva essere altrimenti: Dujisin divenne immediatamente amico degli ufficiali rivoluzionari e aderì al processo che descriveva sempre come l’unico momento storico in cui i militari presero il potere e decretarono una riduzione dell’influenza militare nella vita del paese.

L’agenzia IPS per la quale iniziò a lavorare era un fenomeno giornalistico, culturale e politico di cui Dujisin fu parte strutturale. Nacque negli anni ‘60 su mia iniziativa con l’intento di collegare l’America Latina all’Italia, nel contesto dell’emergenza mondiale delle democrazie a rischio e della pace da riconquistare. Da lì nacque IPS, con sede a Santiago del Cile e Roma, con dispacci che venivano inviati per posta ordinaria. Quando Dujisin si unì, l’UNESCO aveva approvato una risoluzione sul Nuovo Ordine Mondiale dell’Informazione e della Comunicazione, promossa principalmente dal Movimento dei Paesi Non Allineati. IPS divenne il portavoce di questi movimenti, in opposizione ai grandi poteri di sempre. Per Dujisin non era un dettaglio che la Jugoslavia fosse uno dei principali promotori: il suo impiego in IPS, il suo impegno con il Portogallo e la promessa di una democratizzazione mondiale dell’informazione erano per lui un’unica cosa, un leitmotiv.

In IPS fece di tutto: corrispondente in Ecuador e alle Nazioni Unite, inviato speciale a ogni conferenza internazionale, o per risolvere conflitti in nome del “direttore” Savio, Capo Redattore nella sede centrale di Roma, e nel 1990, il ritorno a Lisbona come capo della cosiddetta “Mesa Mundial”. In sintesi, un architetto della crescita vertiginosa dell’agenzia, che entrò brevemente in competizione con i grandi. Nelle sue avventure, Dujisin faceva amicizia con tutti: funzionari dell’ONU, presidenti, futuri presidenti ed ex presidenti, ambasciatori, perseguitati politici, perdenti professionisti, politici influenti e non influenti. Non passava mai inosservato da nessuna parte, con la sua voce tonante, i suoi gesti travolgenti, i suoi occhi mediterranei, i capelli lisci e ramati, il sorriso franco e le sue idee su tutti i temi mondiali, la psicologia delle nazioni o i segreti della storia che studiò da giovane e verificò sul campo nei cinque continenti.

Era implacabile con gli arrivisti e gli ipocriti, che individuava a distanza. Nacquero tre figli in quei movimenti: Daniel e Zoltan a Lisbona, e Anette a Quito. Tutti e tre cresciuti in più lingue, in più paesi e in un contesto che dovrebbe essere oggetto di un film tragicomico: la formazione metodica centroeuropea della madre e la personalità voluttuosa del padre. Tutto, direi, a loro vantaggio, come è ovvio oggi, che sono adulti maturi, e piangono a Lisbona il loro padre, forse uno dei giornalisti cileni e latinoamericani più importanti, ma che in Cile pochi conoscono.
Dujisin è stato intenso ed esagerato in tutto, ma, riassumendo, quasi sempre aveva ragione.

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