“Enrico Berlinguer non era un conservatore: aveva intuito il futuro”, l’intervista al fratello Giovanni

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L’11 giugno di quarant’anni fa moriva Enrico Berlinguer. Uno dei leader politici italiani più importanti del novecento. E forse quello che più di tutti, nel secondo novecento, ha guidato il cambiamento in Italia e una politica radicalmente riformista.

Berlinguer è stato colpito da un ictus mentre teneva a Padova un comizio a conclusione della campagna elettorale per le elezioni europee del 1984. Nelle quali, dopo la sua morte, il Pci diventò primo partito.

In Parlamento era in corso ancora l’ostruzionismo del Pci contro la legge che tagliava la scala mobile (un meccanismo per adeguare e alzare automaticamente i salari) e che poi fu approvata e probabilmente è una delle cause del record che ha l’Italia nella riduzione dei salari in questi decenni.

Fu un leader molto amato e molto odiato. Molto apprezzato e molto contestato. Nel suo partito, anche, ma soprattutto fuori dal suo partito. Per ricordarlo, ma anche per provare ad avviare una discussione su di lui, il suo pensiero, le sue idee, i suoi valori (tutti, forse, non così antichi come magari si crede) ripubblichiamo 10 interviste (raccolte dall’Unità 20 anni fa) a dieci leader politici che lo hanno conosciuto bene. Iniziamo oggi con suo fratello Giovanni, e poi proseguiamo con Tortorella, Cossiga, Ingrao, Ghirelli, Benetollo, Macaluso, Rossanda, Tedesco e D’Alema.

Giovanni Berlinguer è il fratello di Enrico. Di due anni più giovane. Lo ha seguito durante tutta la sua vita politica, ed è sempre stato un militante e un dirigente del Pci, anche se a differenza del fratello non ha scelto la militanza a tempo pieno ma ha svolto la sua professione di scienziato, medico, e professore universitario. Nel 2001 Giovanni Berlinguer ha accettato di essere il candidato della corrente di sinistra dei Ds alla segreteria del partito. Ora è presidente di “Aprile”.

Com’era Enrico Berlinguer da ragazzo?
Come può essere un ragazzo di buona famiglia. Studioso quanto basta, molto appassionato di mare, gentile, pochi amici ma di solido legame. Aveva un carattere forte. Forse era segnato dalla morte della madre. Fu un fatto che pesò molto su di noi, anche su di me, che ero più piccolo di due anni.

Quando morì vostra madre?
Morì nel ’36, ma era malata da molto tempo. Morì quan­do Enrico aveva 14 anni e io 12. Il ricordo che ho io di mia madre è di una donna sempre malata, debole. Una donna molto affettuosa, ma spesso assente. Per noi è stata una espe­rienza molto dolorosa…

A scuola Enrico era bravo?
Sì era bravo, ma non eccellente. Anch’io ero bravo e nean­ch’io eccellevo. Fummo rimandati a ottobre un paio di volte. Eravamo molto legati. La differenza d’età era piccola e non creava un distacco, anche perché c’erano amicizie comuni, molti cugini. I cugini erano più piccoli di noi, ma erano asso­ciati ai giochi, alle attività collettive, e soprattutto alla vita di mare. D’estate a Stintino eravamo uno stuolo di coetanei. Enrico faceva il capobanda.

A quell’epoca non era timido e un po’ triste come lo abbiamo conosciuto?
No, non era timido, non è mai stato timido e non è mai stato triste. Era riservato ed è sempre stato riservato. La leg­genda sulla sua tristezza era quella che lo faceva maggior­mente arrabbiare. Enrico era allegro, gli piaceva vivere, gli piaceva divertirsi.

Voi due eravate molto uniti?
Con la crescita, verso i 15 anni, i nostri interessi iniziarono a divergere, io mi sentivo attratto dalle scienze, lui maturava una passione per la filosofia. Io sognavo di diventare chirur­go, lui non so cosa sognasse: leggeva libri per me difficilissi­mi. Anche nel tempo libero prendevamo vie diverse. Insieme facevamo la vela e giocavamo al pallone, per il resto ci divi­devamo: io mi specializzai nel biliardo, nella carambola. Ero molto forte. A lui piaceva giocare a carte. Andava al bar Rubat­tu, a via Roma e lì ore a tressette o a mariglia, che è un gioco di carte sassarese, una specie di bridge dei poveri, si fa con quaranta carte. Poi spesso faceva quella che noi chiamavamo la seconda ora. Cioè, quando la notte il bar chiudeva, lui resta­va lì dentro, con un po’ di amici e giocava a poker…

Allora è vero che giocava a poker, come dice Fassino?
Sì, però non è vero che perdeva. Enrico vinceva quasi sempre a poker. E coi soldi si comprava i libri di filosofia. E la filosofia credo che fu l’anticamera della politica.

Quando iniziò a occuparsi di politica?
Non so dire una data esatta. La politica in casa nostra c’è sempre stata. Mio padre era nettamente schierato con l’an­tifascismo, era stato deputato nell’ultima legislatura semi-libera, quella dal ’24 al ’26. Faceva parte del gruppo libe­ral-costituzionale di Giovanni Amendola. Durante il perio­do fascista lui aderì al partito d’azione, subito, appena fu fondato dai Rosselli.

E a casa vostra si parlava molto di politica?
Sì, era un’assemblea permanente. Vivevamo in una villet­ta, dopo la morte di mia madre, che era divisa in due appar­tamenti. In uno dei due appartamenti viveva la zia Lidia col marito Andrea, che era un funzionario di banca; poi venne, quando fu pensionato e ritornò a Sassari da Roma, anche il nostro nonno materno, Giovanni Loriga, un medico igienista. Nelle riunioni serali esplodeva lo scontro politico: papà democratico, mio nonno socialista di impronta positivista, come molti scienziati di quella generazione, poi c’era lo zio Andrea, anarchico, e noi due ragazzi che propendevamo per idee più moderne e avanzate. Queste si precisarono poi, quan­do Enrico entrò in contatto con gruppi di lavoratori che erano stati comunisti.

Quando successe?
Negli anni tra il ’40 e il ’42. Noi eravamo influenzati anche da zio Ettore, che era il più giovane degli otto fratelli di mio padre, faceva il giornalista alla Nuova Sardegna fin­ché i fascisti non la chiusero. Lui aveva una piccola bibliote­ca di libri proibiti. Naturalmente c’era “Il Manifesto” di Carlo Marx (edizioni Laterza) e poi c’erano gli scritti di un pensa­tore anarchico della fine dell’Ottocento, Max Nordau. Ricor­do che leggemmo un suo libro che ci colpì molto. Si chiamava, “Le menzogne convenzionali della nostra civiltà”. C’era un bel catalogo di menzogne: patria, famiglia, religione… Noi eravamo molto legati allo zio Ettorino perché lui era della generazione di mezzo, faceva un po’ da ponte tra noi e quel­li dell’età di mio padre. Anche con lui c’erano continue dis­cussioni: di politica, di filosofia, di letteratura.

Una volta mi hai detto che tuo fratello era un kantiano.
Sì, in filosofia era un kantiano. Aveva letto la “Critica della ragion pura”, la “Critica della ragion pratica” e la “Cri­tica del giudizio”. Non conosceva ancora gli scritti politici di Kant, perché allora in Italia circolavano poco. Aveva una immensa ammirazione per la costruzione intellettuale di Kant e soprattutto per la dimensione morale della sua opera. Però leggeva anche molti altri autori. Soprattutto leggeva Hegel, Schopenhauer, e amava molto la “Storia del liberalismo euro­peo” di Guido De Ruggiero.

Quando succede che tutto questo si tramuta in politica-politica?
La politica – ti dicevo – c’era sempre stata. Negli anni 40 esplode. Un po’ per la nostra passione e la nostra curiosità di capire quello che succedeva. Un po’ anche per l’influenza di nostro padre.

Voi eravate interessati all’aspetto pubblico della vita di vostro padre?
Sì, soprattutto ai suoi racconti sul fascismo e sull’antifa­scismo, e alle implicazioni politiche di quel che faceva come avvocato penalista. Mi ricordo in particolare un episodio che fu anche drammatico. Nel ’37 ci fu a Sassari un duplice omi­cidio. Alcuni uomini della milizia, dopo una lite, uccisero due venditori ambulanti di torrone. Mio padre, insieme all’avvo­cato Andrea Cugiolu, fece la parte civile per incarico dei parenti delle vittime. Il clima in città divenne accesissimo. I fascisti erano scatenati. Minacce, scritte sui muri, telefonate anonime, cortei. Mi ricordo gli slogan scritti con la vernice vicino casa, e i manifesti affissi per la città: “Chi tocca la mili­zia avrà del piombo”. Una vera campagna intimidatoria. L’aula della Corte d’Assise era stracolma il giorno che iniziò il processo. Sia perché il fatto aveva creato molto scalpore, sia perché nel processo erano impegnati due avvocati “di grido”, i più noti di Sassari. A difendere gli imputati della milizia fu chiamato l’avvocato Siniscalchi, che veniva da Napoli, e a Napoli era il capo del fascio, cioè il federale. Ini­ziò subito la polemica tra difesa e parte civile. A un certo punto Siniscalchi gridò contro mio padre: “voi state facendo speculazione politica sopra due cadaveri!”. Mio padre si alzò dal suo banco, attraversò l’aula, si avvicinò al banco di Sini­scalchi, in silenzio, e gli assestò due schiaffoni in faccia. Suc­cesse il finimondo. Mio padre era così. Cugiolu si arrabbiò e gli disse: “Mario, il processo è finito qui…” In effetti il pro­cesso fu sospeso e rinviato a Viterbo. “Legittima suspicione”. Poi a Viterbo i fascisti furono assolti. Ma l’episodio dello schiaffo ebbe un seguito. Si scoprì che ambedue gli avvoca­ti, Siniscalchi e mio padre, erano ufficiali in congedo, e si vide anche che il codice d’onore degli ufficiali in congedo, in questi casi, imponeva il duello. Era una situazione strana. La legge, formalmente, proibiva il duello. Ma il codice d’onore lo esigeva. Si decise di farlo. Si stabilì la data. Si stabilì l’ar­ma: spada. A noi, nostro padre non disse niente. Però ci comu­nicò che lui, per distrarsi, riprendeva le lezioni di scherma. Si allenava tutti i giorni. A noi sembrava strano, lui aveva quasi cinquant’anni. Il duello si fece. In campagna, vicino a Sassa­ri, all’alba. Fu un duello in piena regola: coi padrini, i medi­ci, il pubblico e tutto. E un cordone di carabinieri per evitare invasioni e garantire la regolarità. Mio padre da giovane aveva fatto molta scherma. Ai primi assalti ferì subito Sini­scalchi al braccio destro, i medici si affrettarono a dire che Siniscalchi non poteva continuare. Duello vinto. Mio padre tornò a casa alle sette, ci svegliò per mandarci a scuola e ci raccontò tutto, ed era eccitatissimo e molto felice. Questa strana vicenda ha anche una coda recente. Qualche anno fa ho sentito che si presentava alle elezioni per il Sena­to un avvocato di Napoli di nome Siniscalchi, nelle liste del­l’Ulivo. Per curiosità ho chiesto chi era. Mi hanno detto che era di una nota famiglia di avvocati napoletani e che suo padre era stato anche il capo del fascio. Vedi come cambiano le cose? Del resto devo dire che poi, negli anni successivi al duello, mio padre ci parlò sempre bene di Siniscalchi, che incontrò più volte in Cassazione. Disse che era una brava per­sona. In effetti era un uomo potente e se voleva vendicarsi di mio padre poteva farlo. Invece non fece niente …

Quando è che voi diventaste comunisti?
Prima della liberazione, nel ’43, si era costituito a Sassari un gruppo di comunisti, in gran parte anziani. E appena pos­sibile fu costituita la sezione del Pcdi. Non era arrivata in Sar­degna la notizia che il nome era cambiato e che si chiamava Pci. Enrico diventò segretario dei giovani comunisti di Sas­sari. Ci furono subito molti iscritti. Proletari, sottoproletari, studenti. Io diventai comunista più tardi, nella primavera del ’44, quando Enrico uscì di prigione dove lo avevano rinchiu­so per la rivolta del pane. Enrico aveva molto ascendente sui ragazzi, faceva delle lezioni, spiegava Marx, le teorie comu­niste e tutto il resto. In Sardegna la fine del fascismo fu salu­tata con grandi manifestazioni. Nel settembre del ’43, dopo l’armistizio, ci fu anche il tentativo degli antifascisti di spin­gere l’esercito italiano a disarmare la divisione tedesca che era di stanza nell’isola. Sarebbe stato possibile, perché i soldati tedeschi erano sparsi nel territorio, quindi vulnerabili. Però il comandante delle forze armate italiane respinse que­sta idea. Permise che i tedeschi si raggruppassero e sloggias­sero rapidamente dalla Sardegna che loro consideravano indifendibile. I tedeschi salirono al nord, passarono in Corsi­ca e poi sbarcarono in Francia. La Sardegna fu libera già dal settembre del ’43. Non ha conosciuto la guerra guerreggiata. È stata, forse insieme alla Puglia, l’unica Regione italiana che non l’ha conosciuta. Ha vissuto solo i bombardamenti deva­stanti prima del settembre ’43, soprattutto a Cagliari, dove c’era un porto importante che fu sottoposto a moltissimi attacchi dagli aerei alleati. E il porto di Cagliari è proprio den­tro la città. A Sassari, invece, ci furono solo un paio di bom­bardamenti senza vittime.

Cosa successe dopo l’8 settembre?
La situazione politica restò per molti mesi immobile. Ci fu continuità con il fascismo. Non c’erano più il partito fascista e la milizia, ma le prefetture, le questure, tutti i gangli del­l’amministrazione erano nelle mani degli stessi di prima. Nessun cambiamento. E la situazione economica peggiorava. Durante la guerra c’erano state sofferenze, ma la Sardegna aveva un certo grado di autosufficienza alimentare. Pastori­zia e agricoltura. Dopo l’otto settembre le cose peggiorarono, c’era la crisi vera. Arrivò la fame. C’era anche il divieto di costituire partiti politici, tanto che nostro padre fu arrestato per avere contravvenuto a questo divieto, organizzando il partito d’azione. Fu una vicenda curiosa l’arresto di mio padre. Lui era un personaggio, in città. Conosceva tutti, spe­cialmente a Palazzo di giustizia. Così, quando fu spiccato il mandato di cattura, qualcuno lo avvertì e lui cercò di non essere arrestato. Legò insieme qualche lenzuolo per calarsi dal balcone sul retro, e poi mise un catenaccio al cancello di casa, in modo di avere il tempo per fuggire. Quando arriva­rono i carabinieri lui se ne accorse, andò nel balcone sul retro, prese in mano il lenzuolo e si calò in giardino. Però nostro padre era coraggioso quanto distratto. Così nella fretta si era dimenticato di legare il lenzuolo all’inferriata, e quando sca­valcò il parapetto aggrappato al lenzuolo volò a terra col len­zuolo in mano e fu una scena drammaticissima e anche un po’ comica. Io ero in casa e mi spaventai molto. Corsi all’ospe­dale a chiamare soccorsi. Lui finì piantonato in corsia.

E l’arresto di Enrico quando avvenne?
Più tardi. Mio padre era stato già liberato. A Sassari, all’i­nizio del ’44, ci fu una rivolta spontanea degli affamati. Sac­cheggiarono i forni, ci furono grandi manifestazioni in piaz­za d’Italia, e fu invasa anche la prefettura. Scattò subito la repressione e colpì selettivamente quelli che erano accusati di essere i fomentatori, cioè i giovani comunisti. Molti giovani comunisti stavano effettivamente tra la gente. Ma non erano stati loro a organizzare la rivolta, non potevano essere stati i promotori di un movimento così grande. Era un movimento grande e anche disperato, perché era mosso dalla fame, dalla fame vera. Enrico fu arrestato insieme a una trentina di ragaz­zi comunisti. Fu accusato di devastazione, saccheggio, insur­rezione armata. Imputazioni gravissime. Comportavano la pena di morte. Per diversi mesi furono tenuti segregati al car­cere di San Sebastiano, che si trovava proprio di fronte allo studio legale di Mario e Aldo Berlinguer. Erano isolati, senza la possibilità di comunicare tra loro, né con le famiglie, né con gli avvocati. I giudici e la polizia lavorarono per costrui­re prove false che servissero a dimostrare che Enrico era il capo della rivolta. E qualche giovane comunista, forse per paura, forse perché ebbe delle promesse, finì per convalidare queste accuse.

 

Voi eravate preoccupati. Poteva finire male…
Si noi eravamo molto preoccupati. Però sapevamo che il castello di accuse non avrebbe retto al processo. E contava­mo sul mutamento del clima politico e morale che stava maturando nella parte continentale dell’Italia già liberata. Eravamo convinti che la liberazione avrebbe avuto conse­guenze positive anche sul processo. Quando mio padre fu incluso nella delegazione dell’antifascismo sardo, per il primo congresso nazionale degli antifascisti, che si tenne a Bari, lui non voleva andare, per restare a Sassari e occupar­si di Enrico. Ma Enrico riuscì a fare uscire dal carcere una lettera nella quale insisteva, diceva al padre che doveva assolutamente andare a Bari. La prigionia di Enrico fu molto serena, per stato d’animo, per comportamento. In teo­ria loro erano isolatissimi, ma siccome mio padre era di casa a San Sebastiano, e conosceva tutti i secondini, nel giro di pochi giorni si organizzò una rete di contatti clandestini, attraverso i messaggi scritti che ii secondini facevano filtra­re. Servirono molto a organizzai–e la difesa contro accuse manipolate e perfino stravaganti. L’episodio più incredibile è stato il ripescaggio, da parte dell’accusa, del verbale redat­to contro Berlinguer Enrico dalla milizia fascista, che aveva fermato e perquisito lui e altri tre “complici”, trovati nelle vicinanze di un manifesto sovversivo intitolato “Sorgere e Risorgere”, e firmato dalla nota formazione clandestina Giustizia e Libertà. La cosa più strana è che il verbale era stato compilato dall’Ufficio politico investigativo della 177esima Legione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale “l’anno millenovecentotrenta, addì 28 del mese di ottobre”, cioè quando Enrico aveva otto anni. Il processo a Enrico credo che è stato quello più impegna­tivo della lunga vita professionale di mio padre. Anche se non si concluse mai. Il clima politico cambiò ed Enrico fu prosciolto in istruttoria e scarcerato. Quattro mesi di carcere. Uscì dimagrito, impallidito, ma probabilmente rafforzato. Credo che fu in quei mesi che decise di dedicare la sua vita alla politica. Aveva 21 anni, aveva quasi finito gli esami all’u­niversità, stava scrivendo la tesi di filosofia del diritto. La politica lo travolse, non si laureò mai.

Ci sono delle lettere di Berlinguer dalla prigione?
Si, ci sono le lettere che ci mandava attraverso i secon­dini amici. Sono scritte a matita, perché non aveva penne, e sono scritte su pezzetti di carta di ogni tipo, da pacchi, o sui margini bianchi della carta di giornale. In quelle lettere dimostra una forza di carattere eccezionale. Rifiutava qua­lunque agevolazione che non fosse per tutti. Tendeva con­tinuamente a tranquillizzare noi sul suo stato d’animo, rac­contava le letture, commentava i libri. Un giorno scrisse che aveva imparato a memoria l’Amleto in inglese, e che l’Amleto esprimeva in modo perfetto i dilemmi di ogni essere umano. Sono molto interessanti queste lettere. Erano poi straordinarie, sul piano affettivo, le lettere di nostro padre a lui. Gli scriveva quasi ogni giorno. Lettere lunghe. Nella prima parte metteva il racconto degli atti istruttori, notizie sullo svolgimento delle indagini, consigli legali eccetera; poi nella seconda parte parlava della guerra e della politica italiana, oppure faceva il resoconto del congresso di Bari, del suo ritrovare amici e compagni di lotta dei quali si erano perdute le tracce. In tutte queste lettere c’era un gigantesco amore paterno…

Cosa fa Enrico quando esce dalla prigione?
Compie un viaggio con mio padre a Salerno dove c’è la sede del governo, e lì conosce Togliatti: glielo fa conoscere mio padre. Poi, subito dopo la liberazione dell’Italia va a Roma. Per la verità andiamo a Roma insieme. Prendiamo casa con nostro padre in un appartamentino a via Boccane­gra, dietro piazza Bologna. Tra noi in quel periodo c’è un rap­porto molto intenso di comunicazione e di scambio, non di frequenza perché ci vediamo poco. Lui viaggia, io studio medicina. Enrico è diventato un dirigente del movimento gio­vanile comunista, diretto da Giulio Spallone e poi da Giulia­no Paletta. C’è anche Carlo Lizzani. Sta poco a Roma. Il par­tito lo spedisce a Milano a fare esperienza. A Milano c’è il “Fronte della Gioventù”, quello fondato da Eugenio Curiel, che è stato ucciso nel 1945 dai nazisti. Il “Fronte” è una orga­nizzazione unitaria, non solo di comunisti. Poco dopo si costituisce la federazione giovanile comunista, e lui diventa il segretario nazionale.

Com’era il tuo rapporto politico con lui?
Sono stato un seguace di Berlinguer. Un adepto. Ma nel corso degli anni ho avuto anche varie discussioni, vari dis­sensi. Non frequenti ma li ho avuti. Per esempio negli anni quaranta, quando la prospettiva dell’Italia era di andare verso la normalizzazione, non ero d’accordo, ero irrequieto, io non credevo molto alla possibilità di una azione sul terreno demo­cratico. Enrico si mostrò molto più ragionevole di me, e natu­ralmente aveva ragione.

Tu eri un po’ “secchiano”, forse, nel senso di simpatizzante per Pietro Secchia?
No, questo no. Non ho mai avuto simpatia per Pietro Secchia.

Sulla linea politica del “compromesso storico”, negli anni ’70, eri d’accordo?
Pensavo che fosse una giusta strategia ma fui turbato di fronte al suo divenire semplice accordo di governo. Un accordo che poi significò subalterni. Su questo discutem­mo molto con lui. Enrico diceva che era un passaggio obbli­gato. E d’altra parte la validità della strategia ebbe una straordinaria conferma nelle elezioni del ’75 e del ’76. Il Pci guadagnò moltissimi voti.

Perché fu abbandonato il compromesso storico?
Per molte ragioni. La più importante credo sia che l’in­terpretazione prevalente che si ebbe di quella idea politica fu in termini di negoziati di vertice e di cedimenti. E poi perché a un certo punto ci furono dei cambiamenti sostan­ziali nel quadro politico: mutarono le coordinate in cui si era mossa quella strategia. I cambiamenti principali furo­no due. Uno fu che sul piano internazionale vinsero la Thatcher nel 1979 e Reagan nel 1980. Cioè prevalse alla guida dell’occidente una linea di capitalismo aggressivo, rivoluzionario, espansivo. Che dette avvio alla globalizza­zione neoliberista nella quale oggi viviamo e della quale vediamo chiarii guasti e le ingiustizie che ha creato. E l’altro mutamento fu interno. Cambiò il nostro panorama politico: con la morte di Moro prevalse nella DC una linea che era assolutamente contraria al compromesso storico e aveva in testa un futuro molto diverso per l’Italia. Il com­promesso storico si basava molto su quelle due personali­tà straordinarie: quella di Berlinguer e quella di Moro. La morte di Moro fu un colpo micidiale per l’Italia. E poi ci fu un altro fattore ancora: ci fu un ricambio nei gruppi diri- genti dell’economia italiana. Vinsero le correnti più conservatrici, e queste correnti decisero un contrattacco: vollero porre un freno alle riforme, riassorbirle e iniziare una vera e propria inversione di marcia sul piano politico e sul piano sociale…

Gli anni settanta, che sono quelli durante i quali si realizza la strategia del compromesso storico, sono ricchi di riforme. Riforma sanitaria, equo canone, aborto e moltissime altre. Riforme che modificarono la struttura economica e lo spirito pubblico dell’Italia.
Si, il contrattacco fu proprio contro queste riforme. Una parte dei gruppi dirigenti politici ed economici decisero che bisognava invertire rotta. Sbarrarono il compromesso storico.

A quel punto nella politica di Berlinguer c’è una rottura e un ripensamento. Nasce così la linea dell’alternativa democratica, e poi la teoria della diversità e l’apertura della questione morale?
Lui sente che c’è un tarlo nel sistema politico. E che i par­titi di governo non sono più animati da alcuno slancio ideale. Stanno perdendo il rapporto tra la politica e le cose che conta­no, cioè I’ interesse dei cittadini, le aspirazioni della gente, le esigenze di solidarietà. E soprattutto sente che l’accordo tra Dc e socialisti è un accordo di basso profilo. Non ha le basi politi­che e ideali che aveva avuto la nascita del primo centrosinistra. È una alleanza insufficiente a garantire la guida democratica del paese. Allora Enrico cerca strade nuove. Secondo me que­gli anni, e cioè i primi anni ’80, non sono gli anni dell’isola­mento – della ricerca dell’isolamento e dell’identità, uno con­tro tutti – come qualcuno ha scritto. Sono gli anni in cui lui si rende conto, non sempre in modo del tutto nitido ed evidente, che il mondo è entrato in una fase nuova. E oltre a proporre una politica di alternativa democratica, ai partiti e all’opinione pub­blica, tenta di definire e ridefinire i metodi della politica, gli scopi, la fisionomia. E così propone da un lato la questione morale, dall’altra la linea dell’alternativa. La questione mora­le non è certo una questione giudiziaria. Enrico non si pone l’o­biettivo di mandare qualcuno in prigione, ha un obiettivo molto più ambizioso: quello di rinnovare i partiti, il costume, i rapporti coi cittadini. In sostanza si pone il problema della riforma della democrazia e del potere. È questa la questione morale. E l’alternativa è un insieme di progetti e di temi che allora furo­no scarsamente capiti dal suo stesso partito, e soprattutto dal gruppo dirigente del suo partito, ma che erano incredibilmen­te moderni, erano proiettati nel futuro. Oggi sono di straordi­naria attualità, costituiscono l’agenda politica reale. Sono il tema dello scontro che è aperto tra le diverse concezioni poli­tiche del mondo e del suo futuro.

Quali erano questi temi?
Il tema dell’austerità, per esempio. Che è un tema gigan­tesco, per niente conservatore, anzi tutto costruito su un’i­dea nuova di “domani”. Sollevava le seguenti esigenze: revisione dei rapporti tra Nord e Sud del mondo, valorizza­zione di nuove risorse, lotta contro gli sprechi dell’occiden­te, redistribuzione della ricchezza, salvaguardia dell’am­biente. Non sono le questioni che oggi abbiamo davanti e che ancora non ci decidiamo a prendere di petto? Mi ricor­do di quando preparava la relazione al XVI congresso. Un giorno mi disse: “Al prossimo congresso lancerò un’altra idea. Quella del governo mondiale”. Eravamo nei primi anni ottanta, nel reaganismo e nel breznevismo, Gorbaciov non era ancora alle viste, il muro sembrava eterno, la corsa agli armamenti galoppava. E lui lanciava l’idea di un gover­no mondiale? Rimasi molto sorpreso. Pensai che non lo avrebbe fatto. Invece lo fece, e spiegò cosa intendeva per governo mondiale e perché era necessario ed era l’unica via d’uscita. Mi convinse. Capii che era effettivamente la dire­zione giusta. Non so quanto realistica, ma giusta. E lui mi suggerì di rileggere gli scritti politici di Kant, dove questa idea era specificata. Era delineato un nuovo rapporto tra popoli e governi non come soluzione parziale per impedire questa o quella guerra, bensì come modo per stabilire rela­zioni diverse tra popoli e potere e per assicurare la convi­venza nel mondo.

Per Berlinguer il pacifismo fu importante?
Si il pacifismo fu importante. Il pacifismo negli anni ottan­ta entra in una fase nuova. Non assomiglia al pacifismo dei decenni precedenti. Diventa indipendente, autonomo. Nel dopoguerra i movimenti pacifisti erano sempre stati molto influenzati dalla divisione del mondo in blocchi. In quei movi­menti c’era una specie di adesione a uno dei due blocchi. Negli anni ottanta cambia tutto. E Enrico cambia la politica del Pci. Vedi, io credo che ci siano due momenti importantissimi di svolta nella sua politica. Uno è la famosa intervista a Giam­paolo Pansa nella quale Enrico riconosce la Nato e dice di sen­tirsi più tranquillo con l’Italia sotto il suo ombrello. È un vero e proprio rovesciamento della politica estera. Il secondo momento è la lotta contro gli euromissili, nei primi anni ottan­ta. Non solo contro i missili americani ma anche contro i mis­sili sovietici. Enrico fu tra i pochi uomini politici italiani che iniziò a prendere in considerazione un mondo non più diviso in blocchi, e iniziò a pensare la politica fuori dei blocchi.

Tu dici che la sua non era una posizione difensiva e di conservazione e rilancio dell’identità. Dici che era una posizione che guardava più al futuro che al presente. È così?
Si, è così. C’è in quegli anni un’altra intervista importan­te. Una lunga intervista all’Unità, a Ferdinando Adornato, che allora era un giornalista dell’Unità, e l’intervista fu pubblica­ta in un numero speciale che prendeva spunto dall’anno 1984 (visto che 1984 è il titolo di un famoso libro di Charles Orwell sul futuro). In quell’intervista Enrico mostrava di avere capi­to molto di quello che stava per succedere, e della rivoluzione tecnologica che era alle porte. Lanciò una proposta, quel­la di un grande convegno internazionale sulla futurologia, che suscitò scarsissimo interesse nel partito e nell’intellettualità. Egli era molto interessato a un tema che era stato tra noi, fin da ragazzi, oggetto di discussioni infinite: la priorità della filosofia o della scienza e i loro rapporti nella dinamica della storia e del pensiero umano. Era interessato all’innovazione, al ruolo delle nuove scoperte scientifiche e soprattutto al peso che tutto questo avrebbe avuto sulla politica e sui rapporti tra la politica e il genere umano.

Si rendeva conto che questi rapporti non potevano essere garantiti solo dalle vecchie strutture dei partiti. Non stava forse pensando anche al superamento di quella forma di partito?
Sì, credo che stesse pensando a questo. Ma il suo pensie­ro non era ancora abbastanza delineato. C’è una conversa­zione di cui ha dato conto Francesco De Martino. Egli sug­gerì a Enrico di cambiare il nome del Pci. Sembra che Enri­co abbia risposto che un passo del genere non sarebbe stato capito dal suo stesso partito. Ma di questo non posso dare alcuna testimonianza perchè con me non ne parlò mai.

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