Chi era Francesco Piscopo, l’avvocato “combattente” e fiero oppositore della legislazione d’emergenza

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“L’unico avvocato che ormai tollerano è quello ‘neutro’ d’ufficio, tutto ciò è molto grave, attaccare la figura dell’avvocato significa attaccare uno strumento che riguarda in genere le classi subalterne. Chi se non loro finiscono in galera? Anche nell’ambito della malavita organizzata sono i pesci piccoli, gli esecutori materiali quelli che vanno dentro”.

Riportiamo questo ragionamento fatto all’inizio degli anni ‘80 dall’avvocato Francesco Piscopo che ci ha lasciato la viglia di Pasqua alla fine una lunga malattia a 87 anni dopo una vita passata a difendere soprattutto nei processi politici, da quello di piazza Fontana in poi.

Quella di Francesco Piscopo fu la firma insieme a quella di Luca Boneschi, Giuliano Spazzali, Marco Janni in calce a un durissimo esposto da parte del comitato contro la repressione il 14 dicembre del 1969 due giorni dopo la strage per denunciare la sospensione dei diritti della difesa. Tutto ciò già prima dell’arresto di Valpreda e del “volo” di Pino Pinelli dalla finestra del quarto piano della questura di Milano.

Piscopo fu un fiero oppositore dei processi e delle leggi di emergenza. La sua attività insieme a quella di altri colleghi è un pezzo della storia degli anni ‘70 nella difesa di arrestati e imputati. Scriviamo queste poche righe per ricordare il suo senso dell’umorismo e dell’ironia.

In occasione dell’emissioni di mandati di cattura, allora si chiamavano così, a carico degli avvocati Luigi Zezza e Nanni Cappelli arrestati come “complici dei terroristi”, Piscopo parafrasando le ordinanze e le requisitorie dei magistrati invitava riflettere: “Se l’avvocato non viene pagato dagli assistiti è perché fa parte della banda. E se invece prende la parcella, bene in quel caso sono soldi frutto di rapine e altre attività illecite. L’avvocato colpevole comunque, insomma c’entra sempre”.

E poi ancora nel confronto con le procure Piscopo ironizzava: “È proprio quando sembra che le prive non ci siano che ci sono. E se ci sono se ne può discutere”. Sempre lui si divertiva ma sorridendo amaramente a raccontare gli interrogatori di Toni Negri davanti al pm Pietro Calogero. “A Toni davo dei gran calci fino a fargli male davvero sotto il tavolo per costringerlo a stare zitto. Perché lui decideva di rispondere anche quando il magistrato tendeva a impostare una sorta di conversazione perché diceva lui voleva capire”.

A quel punto Piscopo interrompeva le domande di Calogero: “Scusi dottore, se dobbiamo conversare lei tolga le manette al professore e ce ne andiamo al ristorante”. L’avvocato intanto continuava a scalciare “perché Negri era convinto di riuscire a convincere il magistrato che lui non c’entrava con le accuse. Impresa impossibile. Non aveva davanti a se un magistrato ma un avversario politico. E lo sapeva benissimo ma era portato a rimuovere perché presumeva molto da se stesso”.

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