Cosa c’entra la buona politica col moralismo? Nulla…

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La questione pugliese è grave. Così grave da non tollerare di finire sotto il tappeto per contingenti tatticismi elettorali. Le polemiche attualmente in corso tra PD e Cinquestelle sembrano, difatti, limitarsi a questo.

Il PD solo preoccupato, per bocca della sua segretaria, di perdere le elezioni a favore della destra. I Cinquestelle solo ansiosi di beneficiare della debolezza dell’ex alleato, per potersi intestare un pacchetto di voti in più.

Il rischio, perciò, è quello di assistere ancora una volta ad una campagna elettorale farcita di moralismo di facciata e priva di contenuti reali e, soprattutto, priva di una qualsiasi progettualità rivolta al futuro. La prima lezione che dovrebbe essere tratta dalla vicenda pugliese è che la buona politica non ha nulla a che fare con il moralismo e/o con il simbolismo moralista fine a sé stesso.

Quando, nel 2004, il centrosinistra candidò a sindaco di Bari, per la prima volta, il magistrato Michele Emiliano, in servizio presso la locale Direzione Distrettuale Antimafia, il messaggio politico non avrebbe potuto essere sul piano simbolico più chiaro: quella candidatura avrebbe dovuto evidenziare con la massima chiarezza possibile che l’unico vero e affidabile fronte impegnato nella lotta alla criminalità organizzata era quello che faceva appunto capo al centrosinistra. Sulla vittoria che ne è seguita sono stati, poi, costruiti circa venti anni di potere regionale ininterrotto. Una vera e propria sbornia.

Oggi, Michele Emiliano riferisce che, all’epoca, accompagnò un suo assessore a casa della sorella di un boss per esaltare le virtù di tale assessore. Potrebbe essere un esercizio interessante interpellare gli attuali vertici della DDA per conoscere se, in una tale vicenda, siano o no riscontrabili gli elementi di quel reato di concorso esterno in associazione mafiosa, che così tante volte è stato utilizzato come una clava nella lotta politica.

Ma la vicenda pugliese è stata, anche, arricchita da una storiaccia di compravendita di voti, segnata da una diffusione molto ampia e da una durata tale da far pensare a un vero e proprio sistema. Vicenda, per di più, che sembra essere omogenea ad un altro scandalo elettorale, emerso, questa volta, a Torino. Il che induce ad escludere che si sia trattato di una mera degenerazione localistica, dovuta a una pretesa più debole tenuta morale dell’humus culturale, che risiede nel Mezzogiorno.

Di fronte a una crisi valoriale di tale portata, vincere o perdere le prossime elezioni amministrative o europee appare essere una prospettiva del tutto irrilevante per chi abbia una visione “alta” e di lungo periodo della politica.

Occorre chiedersi, in particolare, se una sinistra non più caratterizzata dal sogno rivoluzionario, ma ormai stabilmente ancorata a molto più modesti obiettivi socialdemocratici, possa ancora fare affidamento su quel sentimento di “essere oltre”, con cui Pietro Ingrao aveva liquidato come meri incidenti di percorso gli scandali, piccoli e grandi, che avevano, di tanto in tanto, colpito il PCI.

L’esistenza, oggi, di una cornice economica e di un contesto europeo, che limitano radicalmente le possibilità di reale differenziazione dei vari schieramenti politici, rende falsa qualsiasi prospettiva di una superiorità morale del proprio programma, siccome così radicale da rendere irrilevante e mero incidente di percorso ogni eventuale sbavatura.

Al tempo stesso, resta forte l’impressione che la vera eredità di Mani Pulite e del ruolo politico assunto dalla magistratura, sia stata la diffusa convinzione che il reale discrimine non fosse nel contenuto delle azioni, ma nella scelta del campo in cui le medesime si svolgono.

Ad uno dei due campi in contrapposizione sarebbe stata assicurata una sorta di immunità, in quanto unico e incontestabile paladino della moralità. Se a questo si aggiunge il dato obiettivo di una serie di Presidenti della Repubblica che hanno dato ampio spazio alle capacità di manovra di una dirigenza, incapace di ottenere il necessario sostegno elettorale, ma abile nell’occupare le stanze del potere, si comprende che la vicenda pugliese colpisce una opinione pubblica ormai da tempo fortemente disillusa nei confronti della sinistra.

Questo significa che, per chi abbia realmente a cuore i valori della sinistra, nella misura in cui possono realisticamente essere sviluppati nel contesto internazionale (ed europeo in particolare), vi è, innanzi tutto, un problema di recupero della credibilità, da sviluppare in una prospettiva temporale che supera ampiamente la dimensione della contesa elettorale in corso.

Per i trenta anni che sono trascorsi da Mani Pulite la sinistra ha appoggiato la affermazione della propria moralità su di un sostegno acritico a qualsiasi iniziativa del Pubblici Ministeri e su una violenta aggressione dell’avversario politico ogni volta che un malaffare, vero o presunto, fosse emerso. Abdicando, così, alla propria storia di ostinato garantismo.

Le ultime elezioni hanno detto che questo non è più sufficiente. Per di più, le vicende di Bari e, sia pure in misura minore, quelle di Torino, stanno ad indicare che una ricostruzione dalle fondamenta di una reale prospettiva politica di sinistra è l’unica possibilità di restituire una reale speranza di affermazione ai valori che la informano.

Non bisogna dimenticare una delle indicazioni più significative offerte dalla storia degli ultimi trent’anni: di fronte al fragoroso tradimento di ideali perpetrato dalla sinistra, molti sinceri progressisti hanno preferito rifugiarsi nell’astensione o, addirittura, spostarsi a destra.

Ed è inimmaginabile pensare di recuperare quel consenso con spregiudicate alleanze elettorali o con mere operazioni di facciata, per giunta smentite dai fatti. Neppure è pensabile di poter coprire il tutto con la vernice dell’antifascismo.

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