Cosa ha scritto Berlusconi prima di morire: il testamento politico del Cav reso pubblico dalla figlia Marina

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Avrà qualche esecutore il breve testamento di Berlusconi? Oltre a richiami impolitici all’amore, al cuore, a Dio, ai nipoti, il “lascito ideale” contiene un messaggio molto politico, che ha dei risvolti clamorosi. Con un affondo radicale che lambisce l’irenismo, le quattro pagine del San Raffaele sollevano grandi questioni: la pace, l’accoglienza, la povertà, le garanzie.

Se prese sul serio, le parole del Cavaliere sono destinate ad agitare le acque stagnanti del centrodestra, che ascolta supinamente gli ordini impartiti nell’aspro dialetto meloniano. Che la madre, patriota e cristiana non piacesse a Berlusconi, era cosa fin troppo evidente.

Adesso il distacco, che già si percepiva sul versante per così dire estetico, è scolpito anche sul piano dei principi. Con la sua etica dell’intenzione, che persegue gli ideali indisponibili di un intransigente partito cristiano, l’uomo di Arcore fissa una corposa alterità rispetto al ceto politico cresciuto nel culto dei miti revanscisti di Colle Oppio.

Ad un esecutivo che si vanta di aver soppresso il reddito di cittadinanza il testo berlusconiano rammenta che “Forza Italia è il partito che aiuta chi ha bisogno”. Le misure legislative dei “patrioti”, sbandierate per cancellare anche il semplice ricordo di un sostegno pubblico accordato al disagio estremo, calpestano il senso dell’invito al “partito che dà a chi non ha”.

Sfidando il governo che si prefigge di scovare i migranti “lungo tutto il globo terracqueo”, e fa trasportare per giorni i profughi sino ai più lontani porti del Nord, le immagini di Berlusconi evocano all’opposto “il partito del mondo senza frontiere”.

Contrariamente ai ministri di casa Meloni, che stigmatizzano la “sostituzione etnica” e richiedono confini perché lamentano l’oblio del “ceppo italico”, le istanze berlusconiane rinviano alla ben diversa figura dei “cittadini dell’Italia e del mondo”.

L’unico ambito dove il governo si è dato realmente da fare è quello della creazione di fantasiose e inutili fattispecie criminose, dal “rave party” all’“ecovandalismo”, dalla “rivolta in carcere” allo “scafismo” come “reato universale” (stessa sorte toccherà presto alla “gestazione per altri”).

Ma l’onnivoro panpenalismo dei post-fascisti stride con il cenno berlusconiano al “partito del garantismo”. L’acquiescenza nei confronti del catechismo imposto dai capi neri, usciti trionfatori dal duello per la successione nella leadership, è sollecitata però soprattutto sul terreno scottante della guerra.

Con le invocazioni “del mondo che ama la pace, del mondo che considera la guerra la follia delle follie”, Berlusconi schiaffeggia il conformismo del partito azzurro, che pende dalle labbra di una Giorgia Meloni con l’elmetto saldamente allacciato sulla testa.

La cinica esibizione della intransigenza bellica per assaporare “la vittoria” nel fronte orientale, e lo sfoggio dell’atlantismo più passivo per legittimare una destra radicale altrimenti temuta ed emarginata dalle cancellerie occidentali, vengono strattonate apertamente dalle frasi finali del Cavaliere.

La sua esortazione a riprogettare l’ordine globale, in vista di una coesistenza pacifica entro le solide e ragionevoli basi “del mondo unito e rispettoso di tutti gli Stati”, smonta l’intero impianto delle politiche governative (non solo italiane).

Che un uomo del fare, attento alle prosaiche regole dei costi e dei benefici, si congedi dalle cure intramondane scrivendo un manifesto che incide a chiare lettere alcuni valori ultimi non negoziabili, ha certo del paradossale.

Se raccolto nel suo significato urticante, il manoscritto del commiato si conficcherà come un incubo nella mente di chi ha legato simbolicamente il partito al nome del fondatore e però si è ormai adagiato nella umiliante pax meloniana. È probabile che, preferendo il quieto vivere accanto alla fiamma tricolore, sul Berlusconi campione di un pacifismo assoluto cadrà la più assordante consegna del silenzio.

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