“Da Biden e Macron uscite infelici, insultare gli autocrati come Putin non aiuta”, parla l’ambasciatore Nelli Feroci

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Dalla guerra russo-ucraina, anche alla luce della strage di Mosca, al fronte mediorientale. L’Unità ne discute con l’Ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai), tra i più autorevoli think tank italiani di geopolitica e politica estera.

Diplomatico di carriera dal 1972 al 2013, Nelli Feroci è stato Rappresentante permanente d’Italia presso l’Unione Europea a Bruxelles (2008-2013), capo di gabinetto (2006-2008) e direttore generale per l’integrazione europea (2004-2006) presso il Ministero degli Esteri.  L’ambasciatore Nelli Feroci ha anche ricoperto l’incarico di Commissario europeo per l’industria e l’imprenditoria nella Commissione Barroso II nel 2014.

Ambasciatore Nelli Feroci, dopo la strage di Mosca, i missili ipersonici su Kiev e le accuse di Putin e dei suoi più stretti collaboratori su un coinvolgimento dei servizi ucraini nella mattanza del Crocus City Hall. Qual è la sua lettura?
La reazione del Cremlino all’attentato è inquietante. L’evidente tentativo di addossare responsabilità, dirette o indirette, agli ucraini per un evento che è chiaramente etichettato Isis, è qualcosa di preoccupante, perché sembra essere la premessa per nuove iniziative militari nel conflitto in Ucraina da parte della Federazione Russa.

Quell’attentato è un messaggio diretto allo “zar” del Cremlino?
Un presidente che era stato appena rieletto in maniera trionfale che improvvisamente si scopre vulnerabile e che viene attaccato nel cuore del Paese con una strage di quelle dimensioni, con servizi segreti, penso soprattutto alla Fsb, che non hanno saputo o magari voluto recepire le indicazioni che gli erano state fornite da servizi omologhi, americani e inglesi, e che comunque non sono stati in grado di prevenire un evento di quelle dimensioni, tutto questo è il segno di una grande vulnerabilità e di errori gravissimi.
Dare la responsabilità di quel massacro agli ucraini, è una reazione goffa, la cui unica possibile lettura è, da un lato, uscire dall’angolo in cui si sono trovati per effetto di questo attentato e della totale impreparazione dimostrata, e dall’altro mettere i presupposti per ulteriori iniziative militari contro l’Ucraina.

C’è il rischio di una estensione del conflitto al di fuori dell’Ucraina?
Ritengo di no, aggiungendo, però, che con Putin non si può mai sapere. Ci ha sorpreso più di una volta. Sono convinto che, tutto compreso, Putin sia un animale politico razionale e come tale sia pienamente consapevole che non ha interesse oggi ad attaccare, ad esempio, un paese membro della NATO. Il punto cruciale è un altro…

Quale?
Vedere quali conseguenze potrà comportare in Ucraina e sull’Ucraina la volontà di Putin di continuare a colpire. Non immagino tanto un tentativo di sfondare lungo la linea di quasi mille chilometri, su cui da tantissimi mesi si fronteggiano le forze ucraine e quelle russe, quanto l’intensificazione degli attacchi, con bombardamenti aerei, missili balistici, artiglieria pesante a lunga gittata, sulle città ucraine. Lo abbiamo visto nei giorni scorsi a Odessa, Leopoli, Kiev, con l’obiettivo di fiaccare lo spirito, il morale della popolazione ucraina, alimentando la sensazione di insicurezza di fronte a questi attacchi aerei. Attacchi non hanno alcuna valenza strategica, in quanto non modificano il corso del conflitto, ma hanno l’obiettivo di infliggere danni alla popolazione civile, provando a creare un crescente malcontento nei confronti della dirigenza ucraina. Vedo questo come rischio più concreto, anche se la storia insegna che da Putin c’è da aspettarsi di tutto.

Come interpretare il nuovo protagonismo della Francia e del suo presidente, Emmanuel Macron, anche in chiave “militarista”?
È in contraddizione con la linea che lo stesso Macron aveva tenuto finora rispetto agli sviluppi del conflitto in Ucraina. Se c’era stato un leader occidentale che aveva lasciato la porta aperta ad una qualche forma d’interlocuzione con Putin, quello era proprio Macron. Poi c’è stata questa improvvisa virata su una postura molto più belligerante. La mia sensazione è che al di là del desiderio, un po’ incauto, di lanciare un segnale a Putin, dietro le ultime esternazioni di Macron ci sia una dinamica che ha più a che vedere con la politica interna francese. Macron ha una competitor molto forte, Marine Le Pen, che con il suo Rassemblement National è accreditata di quasi dieci punti in più in percentuale di consensi, con una posizione molto vicina, fortemente accomodante, verso la Russia, e questo spiega molto di un Macron che, in difficoltà interna, cerca di ricollocarsi in una posizione di contrapposizione sulla guerra con la Le Pen e il suo partito. Comunque sia, quella di Macron non è stata una uscita felice. Ha creato sconcerto, difficoltà con gli alleati, in primis con la Germania, ha costretto tutti gli altri a prendere posizione, a operare dei distinguo, a differenziarsi. Se intendeva compattare l’Europa, non c’è riuscito.

A proposito di uscite sopra le righe. Come giudica quella del presidente USA Joe Biden che ha dato del “macellaio” a Putin?
Ho trovato questa uscita di Biden, come altre in precedenza, non particolarmente felice. Non servono, non aiutano. E il discorso non riguarda solo Biden. Capisco che Putin susciti reazioni talvolta viscerali ma non serve a molto, anzi può rilevarsi controproducente, etichettarlo in quel modo, Anche per una ragione molto ravvicinata.

Quale, Ambasciatore?
Mi riferisco alle recenti presidenziali russe. Per quanto non siano state elezioni corrispondenti ai nostri criteri di elezione corrette, resta il fatto che Putin è un leader con il quale dovremo avere a che fare ancora molto a lungo. Non ci piace e non ci deve piacere per i motivi che sono sotto gli occhi di tutti, ma non aiuta minimamente definirlo un macellaio.

L’altro fronte caldo è quello mediorientale. Cosa ha significato l’approvazione, con l’astensione americana, della risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sul cessate il fuoco a Gaza?
Sul piano politico e mediatico, si tratta di un passaggio importante. Per la prima volta gli americani non hanno solidarizzato con il loro alleato di sempre. Con l’astensione hanno consentito l’approvazione di questa risoluzione molto breve, secca, che chiede un cessate il fuoco immediato e il rilascio degli ostaggi. È il segnale di un ulteriore, quasi totale d’isolamento d’Israele. Non succedeva da decenni. Sul piano operativo, sul campo, non succede nulla, nel senso che Israele non si sente minimamente impegnato da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Lo abbiamo già visto innumerevoli volte in passato. Netanyahu è stato costretto a una correzione, prima ha impedito la missione di una delegazione governativa a Washington, salvo poi ritornare sui suoi passi e dare il via libera. Israele, in questo momento, è un paese ossessionato dai problemi di sicurezza e con un leader che ormai ha legato il suo destino politico alla repressione in corso a Gaza. È un paese, Israele, che non sembra in grado di guardare molto oltre il domani o il dopodomani, che non è in grado di avere una visione della sua sicurezza interna un po’ meno in contrapposizione brutale, di contrasto totale con le aspirazioni del popolo palestinese. L’impressione sempre più netta che ho, e non è solo mia, è che Netanyahu sia perfettamente consapevole che il giorno in cui finisse l’operazione su Gaza, sarebbe il momento in cui arriverebbe la resa dei conti, in cui il governo potrebbe andare in crisi e prospettarsi nuove elezioni che potrebbero sancire la fine politica di Netanyahu. Tutto questo mi induce a ritenere che purtroppo Netanyahu non ha alcun interesse a concludere l’operazione di Gaza.

Ambasciatore Nelli Feroci, ma i conflitti in corso, a cominciare da quello in Ucraina, possono essere letti in una chiave di scontro tra democrazie liberali e autocrazie?
Non credo che questa visione sia corretta e che aiuti a costruire un sistema di relazioni internazionali più gestibile, anche perché poi, alla fine, con questi autocrati, che appartengono o meno al sistema di valori occidentali, e diversi di questi ne sono platealmente fuori, dobbiamo fare i conti, e in diversi casi ci sono utili se non addirittura necessari. Con al-Sisi lo abbiamo visto pochi giorni fa, con Erdogan lo vediamo periodicamente. Sono capi di paesi importanti. È ovvio che noi non possiamo né dobbiamo condividere la loro concezione di democrazia o di democratura. Ma con costoro dobbiamo avere a che fare. Demonizzarli non serve. Credo che su questo tema bisognerebbe, come si dice, guidare con l’esempio. Dimostrare che, tutto sommato, le democrazie sono in grado di funzionare meglio e dare risposte più efficaci e avanzate alle richieste delle società e dei cittadini, piuttosto che ricercare contrapposizioni che finiscono per essere anche un po’ artificiose o d’imporre noi dei valori che sono quelli nostri, occidentali, che pure continuo a ritenere migliori. Abbiamo visto tante volte, quando abbiamo imposto condizioni ai nostri aiuti, alle nostre forme di assistenza, che questo non ha funzionato, anzi ha prodotto reazioni di segno negativo.

Tornando alla Russia. Ricordo un’affermazione molto forte dell’allora presidente USA Barack Obama, quando definì, in un modo un po’ sprezzante, la Federazione Russa una “potenza regionale”.
Se vogliamo guardare indietro, noi occidentali qualche errore l’abbiamo commesso nei confronti della Russia, stimolando nell’animo profondo di questo paese un sentimento di marginalizzazione, di esclusione che non ha aiutato. Ma oggi il problema è un altro. Avremmo potuto ragionare diversamente prima dell’aggressione militare della Russia nei confronti dell’Ucraina. Oggi dobbiamo fare i conti con un altro dato che ci porta a ritenere che quella russa sia la leadership di un paese aggressivo e che, come tale, costituisca una minaccia anche alla nostra sicurezza. Forse avremmo potuto assumere un atteggiamento diverso, di maggiore ascolto, ma non so se saremmo riusciti a contenere la Russia, diciamo che non avremmo avuto rimorsi nel confinare questo paese in un sentimento così diffuso non soltanto nella leadership politica ma anche nella popolazione, un paese che vive di nostalgie imperiali, che si sente la parte sconfitta della Guerra fredda e che ha un disperato desiderio di recuperare una vocazione di grande potenza, come se l’Occidente gliel’avesse negata, e non dipendesse in larga misura dal fallimento della loro economia e dalla loro incapacità di porsi su un piano concorrenziale con il resto del mondo. Il paradosso è che i russi sono costretti oggi a consegnarsi mani e piedi alla Cina. Hanno probabilmente ridotto la loro dipendenza dall’Occidente, come noi l’abbiamo ridotta da loro, ma al tempo stesso la Russia è costretta a un rapporto molto squilibrato con la Cina.

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