Il Def è un bluff, zero numeri e tanti flop: cosa prevede la manovra che non c’è

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Il def c’è però è cieco e muto: in termini più tecnici si limita all’aspetto tendenziale, un’istantanea del presente, e glissa su quello programmatico, cioè sulle intenzioni del governo, i programmi, le voci di spesa. Il ministro dell’Economia Giorgetti e il vice Leo, in conferenza stampa, qualche impegno lo prendono ma in via informale: se non proprio un auspicio, quasi. Mirano a confermare anche per il 2025 sia il taglio del cuneo fiscale che l’accorpamento degli scaglioni Irpef, costo 15 miliardi, sia il bonus mamme. Per tutto il resto si vedrà entro il 20 settembre al massimo, “ma faremo prima”. L’opposizione si scatena. Un def senza cifre e monco del versante programmatico? “Roba da governo dimissionario”, persino “contro la legge”. In realtà i precedenti sono pochi ma non inesistenti: Giorgetti ne conta almeno quattro. Ma soprattutto il governo italiano è al riparo dell’ombrello europeo. Poco dopo l’approvazione del def da parte del cdm e la sua scarna presentazione, il portavoce della Commissione europea Veerle Nuyts spiega che, data la circostanza straordinaria dovuta alla transizione verso le nuove regole del Patto di Stabilità appena modificato, saranno probabilmente molti i Paesi che preferiranno concentrarsi sulla scadenza di settembre affidandosi per ora a documenti “più snelli”.

Le nuove regole prevedono infatti la presentazione di Piani di 4 o 7 anni da discutersi con la Commissione entro la fi ne di aprile ma quest’anno, in via di regime transitorio, la scadenza è settembre. I contenuti del def, della vera e propria legge di bilancio dipenderanno in buona misura da quella trattativa. Inutile insomma “sprecare risorse” ora. Copertura totale. In realtà, però, quel che il quadro del presente già dice tanto tranquillizzante non è. Il Pil scende di due decimali rispetto alle previsioni della Nadef dello scorso autunno: dall’1,2 all’1%. È molto probabile che sia una previsione troppo ottimista e che alla fine si attesti a quota anche più bassa. Il debito risale è al 137,8% rispetto al 137,3% del 2023 e continuerà a salire nei prossimi anni.

Colpa del peso “devastante” dei bonus fiscali, con il Superbonus in primissima fila: nel complesso una spesuccia di 219 miliardi. Chiamarla onerosa è poco e si capisce perché Draghi e il suo ministro dell’Economia Franco fossero tanto furibondi con quel Superbonus voluto dai 5S ma sostenuto, per motivi non precisamente nobili, anche da tutti gli altri, dal Pd alla Lega. Comunque il debito resta al di sotto del 140%, data la discesa in picchiata del 2023 resta e resterà anche nei prossimi tre anni al di sotto delle previsioni dell’ultima Nadef. Sul deficit il governo intende confermare la succitata Nadef: dal 4,3% in linea con la tabella di marcia di quest’anno al 3,7%, poi al 3 e infine, nel 2007 ben al di sotto del parametro del 3%, fermo al 2,2%.

Il problema di questo def su una gamba sola non è tanto la sua reticenza, giustificata dalle circostanze, ma dalla contraddizione di quel che invece già dice e che viene colta subito da un esperto come Marattin di Italia viva. Come si fa a promettere un taglio delle tasse di 15 miliardi per l’anno prossimo, in una manovra che secondo la Cgil è già sui 25 miliardi, e allo stesso tempo impegnarsi per un calo del deficit di sette decimali? L’unica, anticipa la Cgil ma è una profezia facile, sarà sforbiciare di brutto la spesa pubblica. Il governo, stando alle parole di ministro e viceministro dell’Economia, punta sulle privatizzazioni. Si accinge a tagliare ancora la spesa dei ministeri. “Non esclude” nuove modifiche alle regole del solito Superbonus.

Conta sulla voce più positiva di tutte, l’inflazione in calo nettissimo che dovrebbe rendere imminente il taglio dei tassi da parte della Bce. Per gli interessi sul debito, che per l’Italia sono un nodo scorsoio, sarebbe una mano santa. Ma il governo scommette anche, forse anzi soprattutto, proprio sulla trattativa con la nuova Commissione europea. Lo si capisce dal battibecco a distanza tra Giorgetti e il commissario europeo all’Economia Gentiloni. Si tratta di Pnrr, non di def o legge di bilancio, e l’Italia chiede di prorogare i termini per quegli investimenti, fissati al 2026. “Non so se ve ne siete accorti ma da allora in Europa c’è stata una guerra”, sbotta il ministro italiano. Aggiunge che “tra colleghi ministri ce lo diciamo, la commissione resta ferma ma forse la prossima valuterà diversamente”. Lo stesso discorso vale per la trattativa sui conti pubblici a partire dal “vero” documento che l’Italia porterà a Bruxelles prima del 20 settembre. In quella trattativa si intreccerà di tutto: gli equilibri partoriti dalle urne del 9 giugno, gli accordi per dar vita a una nuova Commissione, la prima sperimentazione delle nuove regole di stabilità non più sulla carta ma nel vivo del confronto fra Commissione e singoli Stati. La principale speranze di allentare le corde per Chigi e il Mef è quella. Ma comunque vada quella non facile partita, l’austerità per i prossimi anni sembra proprio un destino già scritto.

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