Intervista a Brando Benifei: “Europa a due velocità, la sfida a Meloni e ai nazionalisti”

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L’Europa e il disordine globale. La sinistra all’esame elettorale di giugno. Il “campo largo” visto da Bruxelles. L’Unità ne discute con Brando Benifei, capo delegazione del Partito democratico al Parlamento europeo.

Dall’Ucraina al Medio Oriente, passando per il massacro di Mosca e le tante guerre dimenticate che insanguinano l’Africa: siamo dentro quella che Papa Francesco ebbe a definire la “terza guerra mondiale a pezzi”. E l’Europa?
L’Europa non può rassegnarsi alla guerra e a uno scivolamento verso un’economia di guerra come qualche leader ha detto. Deve fare la sua parte perché si riaprano canali diplomatici e di pressione politica sugli attori delle guerre in corso nel mondo affinché si arrivi a dei compromessi giusti, rispettosi del diritto internazionale e dell’autodeterminazione dei popoli. Questo significa non lasciare soli coloro che oggi sono oggetto di aggressioni brutali e di attacchi che colpiscono la popolazione civile, avendo come stella polare il rispetto dei diritti umani. E’ necessario che le grandi potenze globali facciano la loro parte fino in fondo perché un mondo che riprende la strada dei conflitti non dovrebbe essere interesse di nessuno. Per questo serve anche una grande mobilitazione per spingere le leadership politiche sulla strada giusta e per mettere all’angolo a livello globale chi persiste nell’idea della rottura dell’ordine internazionale con la forza militare e con politiche di occupazione permanenti. Ma serve anche che l’Europa acquisisca una sua fisionomia più definita nella politica estera, una unità politica che deve stare alla base di qualunque difesa e sicurezza comune, anche in ambito cyber, magari iniziando con la cooperazione rafforzata almeno di alcuni Paesi. Serve creatività e ingegno, anche politico-istituzionale, non rassegnazione.

La prospettiva “spinelliana” degli Stati Uniti d’Europa: un sogno definitivamente archiviato?
Il Manifesto di Ventotene è un progetto politico e non un sogno astratto, è l’idea di superare definitivamente i conflitti fra gli europei e affermare un modello democratico attraverso la costruzione dell’Europa federale. L’Unione di oggi ha certamente raggiunto alcuni obiettivi di integrazione insperati ai tempi della scrittura del Manifesto ma rimane una costruzione incompiuta e a tratti farraginosa. È pensabile che l’Europa attualmente a 27 possa ulteriormente allargarsi mantenendo un meccanismo decisionale per cui su poche ma decisive materie mantiene il principio dell’unanimità e quindi del veto in Consiglio? Mi riferisco alla fiscalità, al bilancio, alla politica estera. Per questo io credo che la prospettiva “spinelliana” sia necessaria e inevitabile per dare un futuro all’Unione ma vada declinata nella realtà in cui ci troviamo. Ciò significa che si dovrà vincolare l’avvio della nuova legislatura europea all’apertura di una convenzione per la riforma dei trattati, come già formalmente votato dall’Europarlamento, sapendo altresì che non ci sarà mai l’unanimità per le riforme profonde di cui c’è bisogno.

Di fronte a questa realtà, una domanda è d’obbligo: qual è, se c’è, la via d’uscita?
Si dovrà procedere a individuare un nucleo di Paesi pronto a fare un passo in più insieme, sapendo che un’integrazione differenziata è oggi una prospettiva da mettere sul piatto per poter fare qualche avanzamento reale in termini di azione europea su diritti sociali, del lavoro, fiscalità, politica estera. L’Europa federale “a partire da chi ci sta” è una prospettiva su cui la Meloni va sfidata apertamente, perché la prospettiva dei nazionalisti è chiaramente un’altra, quella della debolezza dell’Europa, magari in attesa di Trump.

Per una sinistra europea che vuole ridefinire, rafforzandola, la propria identità ed essere all’altezza delle sfide epocali del XXI secolo – guerra, ambiente, migrazione, disuguaglianze, crescita – può bastare, anche in chiave elettorale, il dichiararsi contro vecchi e nuovi sovranismi?
Non può bastare, perché le persone vogliono sapere quale sia il nostro progetto in maniera più chiara. Per dare risposte ai problemi che ci pone il mondo di oggi serve più nettezza nell’affermare che un modello di sviluppo che allarga le disuguaglianze va cambiato nel profondo, con più attenzione alla giustizia sociale e alla redistribuzione. Nel ventesimo secolo in Europa abbiamo avuto un lungo periodo di mitigazione delle disuguaglianze sociali, terminato nell’arco degli anni ’80, per via dell’avvento di una nuova ideologia, quella dell’autoregolazione dei mercati e dell’abbattimento delle tasse. Questa strada ha portato progressivamente all’arricchimento di una parte esigua della società e all’impoverimento di ampi strati sociali, per cui oggi diversamente dal passato chi svolge un lavoro da classe media spesso non può più permettersi di mantenere adeguatamente i figli a cui magari rinuncia, non riesce a fare un mutuo per la casa, rinuncia alle vacanze. Noi vogliamo una società dove le persone possano stare meglio e per questo dobbiamo ripensare anche a livello europeo la leva fiscale affinché si vada a chiedere di più ai grandi patrimoni, ai grandi inquinatori che poi vendono i loro prodotti in Europa facendo dumping salariale e ambientale e anche a quelle realtà di impresa multinazionale che riescono ancora ad eludere una giusta tassazione. Credo che se non si riparte da qui è difficile riuscire a dare risposte efficaci rispetto alla transizione ecologica giusta e socialmente sostenibile, al tema della integrazione, al tema della proposta di un modello culturale opposto a quello dei nazionalisti.

La tragedia di Gaza. Se il governo israeliano dovesse, come sembra, fare carta straccia della risoluzione del Consiglio di Sicurezza, l’Europa come dovrebbe comportarsi?
Credo che di fronte a una così aperta sfida al pronunciamento della comunità internazionale non si potrà non rispondere con chiarezza. A mio modo di vedere, sulla base del diritto europeo una scelta del genere dovrebbe portare a una immediata sospensione degli accordi in essere fra l’Unione Europea ed Israele, non basta indignarsi. Come Partito Democratico al Parlamento Europeo ci siamo già espressi chiaramente affinché la sospensione della vendita delle armi al governo israeliano non fosse una scelta solo italiana ma diventasse una scelta europea. La volontà di neutralizzare la capacità offensiva di Hamas e la sacrosanta determinazione a riportare a casa gli ostaggi dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre non può diventare un lasciapassare per compiere crimini di guerra, serve fermezza come nelle parole espresse dall’Alto Rappresentante Borrell, e atti conseguenti da parte dell’Unione Europea. A Gaza le persone stanno morendo di fame e ci sono decine di camion di aiuti bloccati al confine, cosa dobbiamo aspettare ancora?

E sulla guerra in Ucraina?
Sono convinto che le incombenti elezioni americane di novembre porteranno a un maggiore impegno del Presidente statunitense a trovare con la Cina una via per mettere in qualche modo fine al conflitto. Cito gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese perché sono convinto che nel breve termine l’Europa, per i limiti di cui abbiamo già discusso e per il fatto che non ha giocato un ruolo vero prima che questo conflitto esplodesse con l’aggressione russa ma che era già iniziato con la Crimea e il Donbass, non riesca a essere il perno per una soluzione. Certamente deve fare la sua parte affinché si riapra un confronto diplomatico globale perché questo conflitto così pericoloso arrivi a una fine, ma questo implica arrivare a una soluzione che sia giusta e accettabile prima di tutto per gli ucraini, a cui non può mancare un nostro supporto per difendersi dall’invasione che hanno subito. Inoltre, il percorso di integrazione comunitaria dell’Ucraina può essere parte di un più ampio progetto di pace e di sicurezza internazionale, che chiarisca che la minaccia dell’uso dell’arma atomica non può diventare lo strumento per aggredire Paesi impunemente. Va superato lo stallo con la consapevolezza che per fermare i conflitti serve buona volontà e spirito di compromesso e la capacità di mettere sotto pressione interlocutori non affidabili.

Campo largo. Campo giusto. Campo accidentato. L’eterno problema delle alleanze scuote il centrosinistra. Come la si vede da Bruxelles?
Negli ultimi mesi con le tornate elettorali regionali il PD ha visto incrementare i propri consensi rispetto alle elezioni di cinque anni prima e rispetto alle elezioni politiche. In un caso, in Sardegna, questo è stato sufficiente per vincere, grazie anche al voto disgiunto a favore della candidata presidente Todde, nel caso dell’Abruzzo invece la diversa legge elettorale e il risultato non soddisfacente delle forze alleate hanno determinato un recupero non sufficiente per arrivare alla vittoria. Questi risultati ci fanno capire che da una parte un Partito Democratico “testardamente unitario”, così giustamente definito dalla Segretaria Elly Schlein, è in grado di raccogliere un consenso più ampio, dall’altra permane ancora un contesto non semplice per arrivare ad avere una coalizione alternativa alla destra realmente competitiva. Nel periodo Covid al governo del Paese abbiamo avuto una coalizione che ha saputo tenere insieme punti di vista diversi con un progetto chiaro, quello di tirare fuori il Paese dalla crisi in atto con una forte spinta a dare una risposta comune europea.  Io credo che le basi per dare forza a un progetto comune delle attuali opposizioni, se si superano i personalismi di ogni risma, ci siano tutte, di fronte a una destra che non nasconde le sue idee repressive e orientate a perpetrare le disuguaglianze e a limitare le libertà.

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