Intervista a Goffredo Bettini: “Schlein si faccia aiutare dai nostri dirigenti”

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Non c’è bisogno di esibire o ricoprire cariche per essere autorevole. Per essere ascoltato. Per orientare un dibattito. Questa autorevolezza è propria di Goffredo Bettini. Una vita a sinistra. Bettini è stato dirigente romano e nazionale della Fgci negli anni 70.

Conosce e frequenta grandi intellettuali come Pasolini, Bertolucci, Volponi, Eduardo, Moravia, Sanguineti. Negli anni 80 è segretario del Pci di Roma. Entra nella Direzione nazionale del Pci ad appena 32 anni.

Agli inizi degli anni 90 inventa la candidatura di Rutelli sindaco e dà l’avvio al Modello Roma, che governerà per quindici anni la Capitale. Non abbandona la sua passione per la cultura. È presidente dell’Auditorium e fonda la Festa Internazionale del Cinema di Roma.

Con Veltroni segretario, diventa coordinatore nazionale del Pd. Alle dimissioni di Veltroni lascia ogni incarico e si dedica a mesi di lavoro culturale e alla scrittura. Nel luglio 2014 viene eletto al Parlamento europeo. Vola alto Bettini. Leggere per credere.

La prossima campagna delle europee si svolgerà in un clima internazionale terribile. Con due guerre in corso. Quanto peseranno nel clima elettorale?
Molto. Ma purtroppo ci siamo in qualche modo assuefatti. Stiamo giocando sull’orlo del precipizio. Nella quotidianità prevale l’incoscienza, la noncuranza, la rimozione. L’Europa è totalmente assente. La sinistra europea debole. Il Pd ha tenuto una posizione equilibrata; eppure, è apparso troppo condizionato da fattori interni e da una, per certi aspetti inevitabile, ipoteca atlantica. La Schlein, con la candidatura di Tarquinio, un cattolico e pacifista integrale, ha dato un segnale molto importante. Spero che l’elettorato saprà coglierlo.

Cosa è mancato?
Alla prepotenza russa si è risposto con le armi. Giusto, eppure insufficiente se ci si ferma solo a questo. È finita sullo sfondo, fino quasi a scomparire, l’esigenza di una trattativa fondata su una pace giusta. Così la parola “pace”, tanto ricca di significato, è andata sullo sfondo. C’è un arretramento generale del senso comune. L’invocazione della pace, nel passato, era un valore assoluto. Ora, se non si condisce con mille se e mille ma, sembra un cedimento a Putin o al criminale terrorismo di Hamas.

Alla fine, chi l’ha pronunciata in modo più netto è papa Francesco…
Il Papa sa alzare lo sguardo. Al di là della geopolitica, nella guerra vede precipitare l’azione umana nel male e nella miseria dell’animo. Anch’io, non credente, sento fortissima l’assurdità dell’odio sanguinario, del tutto privo della consapevolezza “leopardiana” che, di fronte alla morte, il destino terribile che riguarda tutti, si pratica la distruzione reciproca, invece di praticare la solidarietà e l’amore fraterno. Prevale un istinto di morte, che può portare all’estinzione della nostra specie. Una rinuncia alla vita che trasforma gli umani in cose. L’attrazione verso l’immensità della “pietra”, che tutto sovrasta e rende insignificante.

Avverto pessimismo. È un processo inevitabile?
Non lo so. Il nostro compito è opporsi a questo declino. La priorità è difendere lo “spirito libero”. Quel nucleo vitale, insondabile e unico, che punta i piedi per potersi esprimere con autentica libertà. In questo senso il capitalismo, che ha ridotto il lavoro umano a merce, spinge in una direzione contraria alla vita. Ci sono pagine stupende di Marx che raccontano l’impossibilità del mondo del lavoro di poter coltivare gli affetti, il tempo libero, il gioco, la cultura e la fantasia. Persino l’ozio, che spesso è fonte di grandi pensieri. Francesco, partendo dagli ultimi, sogna un mondo alternativo. Non solo, per riprendere il motto della Rivoluzione francese, “Uguaglianza” e “Libertà”, ma anche “Fraternità”. Parola decaduta; che vuol dire toccare l’altro, donando e ricevendo il bene e l’amore che sempre più scarseggiano.

Come pensa andrà per la sinistra il voto europeo?
Sono fiducioso. La destra ha governato male. Più di quanto emerga dai sondaggi elettorali. Ha colpito molte libertà e contemporaneamente impoverito il tessuto sociale. Assurdo, per esempio, finanziare ulteriormente gli armamenti e depauperare la sanità pubblica. In molte regioni siamo all’emergenza. Si debbono attendere mesi per esami clinici fondamentali e urgenti. Molti sono costretti a rivolgersi alle strutture private. Chi non ha soldi rischia di non essere curato, abbandonato da tutti. Detto questo, il problema di un’alternativa riguarda la capacità o meno delle forze progressiste di unirsi e di proporre un progetto dell’Italia credibile e convincente.

Il famoso “campo largo”?
Sì. Ma il campo largo non è una questione matematica. Tanti partiti insieme possono determinare un campo confuso, contraddittorio e stanco. Piuttosto, in molti casi, un campo con meno partiti può essere in grado di convincere e vincere. Il campo largo è un sentimento; un programma; un’idea che appassiona e mobilita; un candidato che risulta sincero, inclusivo e irreprensibile.

Non mi pare tuttavia che, a proposito dei rapporti politici, a sinistra le cose vadano bene. Anzi, mi sembrano abbastanza terremotate. Che ne pensa?
Oggi pesano molte vicende del passato, a proposito delle quali ognuno ha fatto i suoi errori. E certamente la competizione europea, fondata su un proporzionalismo assoluto, non aiuta a superare le ferite. Ecco perché ritengo fondamentale mantenere, nonostante tutto, un filo. Non strappare definitivamente un tessuto comune. La prospettiva futura non può che basarsi sull’unità delle forze democratiche. Con il Pd e il M5s inevitabilmente alleati. Conte ha utilizzato alcune situazioni di nostre difficoltà in modo ruvido e pensando molto al suo partito. L’importante è non superare un limite di guardia, oltre il quale tutto sarebbe perduto. Sento, tra molte compagne e compagni, emergere la legittima esigenza di porre al centro il Pd nella costruzione di un’alternativa. Un tempo si sarebbe detto: porsi come la forza “egemone”. Ricordo, tuttavia, che l’egemonia si conquista sul campo, esercitando una funzione generale, democratica e nazionale. Non facendo i più duri con i duri. Insomma: se gli altri sono meno unitari, noi dobbiamo fare l’unità per due. Questo sta nella storia delle grandi forze progressiste e popolari che hanno fondato la Repubblica.

A Bari stava per scoppiare tutto?
Sì. Ho cercato di aiutare al fine di trovare una soluzione ragionevole. Laforgia e Leccese sono due personalità di prim’ordine. Diverse, ma per molti aspetti complementari. La soluzione trovata, nelle condizioni date, mi è sembrata saggia. Si andrà divisi al primo turno in un clima di competizione civile. Al secondo turno, chi perde aiuterà l’altro. Perdere Bari sarebbe davvero un’assurdità. È una città che Decaro ha governato benissimo. C’è un consenso popolare al centrosinistra. Lo stesso Decaro è candidato per l’Europa e trainerà il voto della sua città. Insomma, ci sono tutte le condizioni per vincere. Non dobbiamo fare errori.

Eppure, lì è scoppiata una questione morale. Di compravendita di voti, che ha investito anche il suo campo politico…
Lo so. Su questo vorrei dire parole chiare. Non mi convince affatto affrontare tale questione nei termini di sbarazzarsi come partito delle male marce. Se ci sono (e ci sono) vanno indagate e colpite, qualora colpevoli, dalla magistratura. Non è un compito della politica svolgere indagini. Decretare chi sono i buoni o i cattivi. Sentenziare la colpevolezza prima ancora che si sia conclusa una qualsiasi indagine. Sarebbe un modo sbrigativo e superficiale di affrontare il problema. Per noi la questione morale deve significare una riforma radicale del partito e della politica. Su questo ci dobbiamo cimentare. Quando, come accade in tante parti del Paese, gli eletti sono tutto e la militanza impoverita, priva di autonomia e di peso, è evidente che diventano centrali le preferenze e l’esercizio del potere. Nel 2011 scrissi un libro, Oltre i partiti, che era un atto di accusa verso quest’andazzo. Nulla è stato fatto da allora. Quando in un partito si arriva all’assurdo di scegliere le responsabilità fondamentali per un’assemblea elettiva, regionale o comunale, dando a chi ha preso più preferenze la possibilità di scegliere la postazione più autorevole, è chiaro che si determina il brodo di coltura per il malaffare. All’ordine del giorno deve esserci un’altra politica e un altro partito.

Schlein ha fatto qualcosa in questo senso?
In un anno, la segretaria ha ricollocato bene il partito e gli ha dato un profilo che condivido. Sul partito rimane molto da fare.

Che cosa, andando più nel dettaglio?
Le dico i punti fondamentali sui quali secondo me si dovrebbe intervenire. In primo luogo, la costruzione di un gruppo dirigente con i migliori, autorevole e pluralista, slegato dalla forza che ognuno riceve dalla propria area politica. Ci sono compagne e compagni di diversa generazione e di grande valore non utilizzati, che non hanno alcuna voce in capitolo, sprecati dal rinsecchimento dei gruppi dirigenti. In assenza di questa collegialità, il segretario rischia sempre di rimanere solo con il suo staff in balia, non mi piace la parola “cacicchi”, chiamiamoli leader assoluti e solitari dei territori, con i quali alla fine deve inevitabilmente trattare. Questo è accaduto nel passato e rischia di accadere anche oggi. In secondo luogo, l’attacco alle correnti va compreso meglio. Le aree di pensiero in un partito sono una ricchezza. Ho partecipato ad interessantissime discussioni promosse dall’area di Orlando, da quella di Franceschini e anche di Guerini. La circolazione di idee diverse serve come il pane. Dov’è che le correnti non vanno bene? Quando diventano elementi di lottizzazione del potere interno. In questo modo, gli iscritti si dividono in fazioni e tanta gente si allontana dalla nostra comunità, che per fortuna ancora resiste ed è il nostro più prezioso patrimonio. È qui che le correnti vanno destrutturate. La sola via è praticare una vera democrazia interna, consultando gli iscritti sui temi fondamentali che ci stanno dinnanzi: la pace e la guerra; il modo di affrontare i diritti; i provvedimenti economici di sostegno alle fasce più deboli e su altro ancora. Se gli iscritti si mischiano nel confronto, e poi decidono ognuno sulla base della propria responsabilità personale, allora perdono peso le correnti, intese come comando interno.

Nell’ultima direzione, la proposta di Bonaccini di scrivere il nome della Schlein sul simbolo ha diviso molto. Che ne pensa?
Non vorrei tornare su un passaggio delicato, che all’esterno è stato percepito male e dunque ci ha fatto un danno. Considero chiusa la questione, con la proposta della segretaria di eliminare il problema per evitare di dividere il partito. La segretaria è stata molto saggia. Ora, concentriamoci tutti con serenità sulla prossima difficile campagna elettorale.

Però non può sottrarsi ad un giudizio complessivo sulle liste. Qual è la sua opinione?
Le liste sono buone. Molto competitive. Ci sono personalità indipendenti che stimo molto. Lucia Annunziata, una giornalista raffinata e coraggiosa; per tutta la vita coerente e con la schiena dritta. Marco Tarquinio, un intellettuale cattolico, in sintonia piena con il magistero di papa Francesco. E poi Cecilia Strada, Pietro Bartolo ed altri ancora. Accanto, hanno scelto di dare un contributo dirigenti nazionali del Pd di assoluto prestigio. Penso a Bonaccini nel Nord est, a Decaro al Sud e a Nicola Zingaretti, il nostro candidato più forte nella circoscrizione centrale. Ancora: sindaci popolarissimi durante il loro mandato, come Matteo Ricci e Dario Nardella. Forze preziose di una nuova e più giovane classe dirigente.

Nella circoscrizione centro, quella in cui vota ed è stato candidato nel 2014, si è parlato di un eccessivo accentramento di uomini. È così?
In parte è vero. Ma è nelle cose. I territori hanno avuto l’esigenza di essere rappresentanti bene e il pluralismo è stato ampiamente garantito. Ognuno dei candidati ha un profilo autonomo e una storia diversa. Da Zingaretti a Tarquinio, da Ricci a Nardella, dalla Laureti a Paciotti. Ho sottolineato in positivo alcune presenze per me particolarmente positive. Ma, rispetto alle preferenze, sono sempre stato in difficoltà. Non conto nulla su questo campo e ne determino davvero poche. Anche nel passato, le persone vicine a me, penso a Marco Tolli al Comune o Michele Civita alla Regione, nonostante le loro qualità, hanno faticato sempre.

A proposito di Michele Civita, ho visto che dopo 6 anni è stato assolto perché il fatto non sussiste nel processo sul nuovo stadio della Roma…
Non ho mai avuto dubbi. Michele è una delle persone più perbene e capaci che abbia mai conosciuto. Integerrimo, fino alla pignoleria. Gli sono stato vicino, perché ha passato anni terribili. Anche Rutelli, che ha lavorato con lui, non l’ha mai abbandonato. Al contrario di qualcun altro. La sua storia, purtroppo, conferma la lentezza e in certi casi l’approssimazione della giustizia italiana. Ma questo sarebbe un discorso troppo lungo.

Personalmente che campagna elettorale svolgerà?
La più intensa possibile, a partire dalle mie possibilità fisiche. Faccio politica da quando avevo 14 anni e mi iscrissi alla sezione Campo Marzio, imbrogliando sull’età. Un po’ di logorio si sente. E prediligo scrivere e studiare, continuando per questa via a dare un contributo alla comunità alla quale appartengo.

A proposito di scrittura, il 13 maggio presenterà all’Auditorium di Roma il suo nuovo libro Attraversamenti. Storie e incontri di un comunista e democratico italiano (PaperFirst). Gli oratori che interverranno, a partire da Conte e Gualtieri, suscitano molta curiosità politica.
È un libro molto diverso dai precedenti. Persino intimo. Ci sono cose che non ho mai raccontato prima, anche su di me. C’è una prefazione di Massimiliano Smeriglio, un compagno davvero speciale. Integralmente politico, ma anche capace di scrivere storie e romanzi di intensissima umanità. Peccato non averlo nelle liste del Pd. Ma gli auguro lo stesso buona fortuna per la sua candidatura, perché rappresenta una ricchezza per tutta la sinistra.

Mi ha sorpreso che, tra tante personalità della sinistra di cui racconta, un capitolo del libro sia dedicato anche a Andrea Augello, un uomo di destra scomparso recentemente.
Sì. Il libro ha due aspetti prevalenti. Uno politico e l’altro più visionario, sentimentale e umanamente aperto. Si esalta il valore dell’amicizia. Che ci può essere anche, seppur accada raramente, con un avversario. Nelle pagine che ho scritto, l’amicizia è raccontata come attraversamento di due persone. Parlo di Gianni Borgna, Pier Paolo Pasolini, Mario Tronti, Pietro Ingrao, Francesco Rutelli, Renzo Piano, Luciano Berio, Andrea Augello e Franca Chiaromonte. Ho anche tanti altri amici. Ma ho scelto di parlare di questi, per ora. Nell’attraversarsi a vicenda, l’amico lascia qualcosa all’altro che a sua volta lo arricchisce. Vede? Ritorna l’urgenza di una libertà dello spirito e di una comunicazione umana in contrasto con la “cosizzazione” del mondo.

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