La bufala dei taxi del mare, il sequestro della Iuventa non doveva avvenire

RMAG news

Non luogo a procedere. Tutti prosciolti perché il fatto non sussiste. Era basata sul nulla l’inchiesta della procura di Trapani sulla nave Iuventa dell’ong tedesca Jugend Rettet. Si è trattato di un caso di report d’intelligence, inventato di sana pianta, trasposto pari pari in un’indagine della procura.

Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Trapani, Samuele Corso, ha deciso ieri il proscioglimento delle 21 persone accusate – i soccorritori di Iuventa e volontari di Save the children e Medici senza frontiere coinvolti a cascata da un’indagine senza capo né coda – perché non c’era niente di vero nel rapporto dello Sco, unico documento alla base dell’inchiesta. Nulla.

Nemmeno l’ombra di un indizio. Niente contatti con trafficanti. Niente appuntamenti in mezzo al mare per fare trasbordi concordati. Nemmeno la storiella del sacchetto di droga buttato in acqua era vera: c’era la terra dell’Eritrea, paese da cui venivano alcune donne migranti, in quel sacchetto.

Questa bell’inchiesta è durata 7 anni. Ed è stata la madre di tutte le inchieste di criminalizzazione dei soccorsi in mare fatti da navi di ong. Iniziata per aver voluto dar credito alle fantasie di tre contractors, imbucati sotto copertura a bordo di una delle navi, nel tentativo di farsi notare a Roma e trovare una protezione che li rimettesse in pista dopo che alcuni di loro erano stati espulsi dalla polizia.

Sette anni. Tre milioni di euro pubblici spesi in pedinamenti ed intercettazioni illegali di avvocati e giornalisti (Sergio Scandurra di Radio Radicale tra questi). La nave privata Iuventa sequestrata nell’agosto del 2017 – Minniti ministro degli Interni – e mandata in malora mentre era sotto tutela dello Stato.

Non ve li scordate i titoloni di Repubblica e Corriere della sera quella mattina, perché mica solo i giornali di destra militante avevano sparato ingolositi la fandonia delle “ong taxi del mare”. Tutti a dar credito alle parole di tre agenti di sicurezza della Imi security service, imbarcati sulla nave di Save the children – Pietro Gallo, Floriana Ballestra e un altro – che scrissero un report a Matteo Salvini, allora all’opposizione, cercarono Alessandro Di Battista dei Cinque Stelle e provarono a contattare anche Giorgia Meloni.

La procura di Trapani si convinse a spedire un agente sotto copertura a bordo della nave di Save the children. Foto e conversazioni registrate finirono sui giornali. Mostravano soccorritori sui rhibs di salvataggio spostare imbarcazioni di migranti vuote.

La storia di quei contractors e i ponti con organizzazioni militanti di estrema destra li raccontò ai tempi Andrea Palladino in una lunga inchiesta su Famiglia cristiana. Ma non c’era niente nei loro report, erano impressioni, riflessioni, non uno straccio di mezza prova e lo Sco non poteva non essersene accorto se appena sentiti in udienza preliminare come testimoni le parole dei contractors si sono ingarbugliate in tali e tante incongruenze che la stessa Procura ha dovuto chiedere al giudice il non luogo a procedere.

E c’ha messo sette anni la Procura per capire che non aveva nemmeno il più vago indizio in mano? Piangevano ieri i ragazzi prosciolti, piangevano perché loro hanno continuato a fare soccorso in mare ma hanno avuto la vita sconvolta dall’ipotesi di un reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: fino a 20 anni di carcere. “Prove cruciali, come i dubbi sulla credibilità dei testimoni dell’accusa, avrebbero dovuto essere affrontate durante la fase investigativa, non durante il procedimento preliminare”, hanno detto.

Francesca Cancellaro, una dei difensori della Iuventa, ricorda: “Le accuse dovrebbero essere formulate solo dopo un’indagine approfondita e la raccolta di tutte le prove disponibili. Cominciare un processo senza i dovuti accertamenti è ingiusto e comporta un onere indebito per gli imputati”. Nelle motivazioni della sentenza, che saranno pubblicate tra trenta giorni, sapremo cosa ne pensa il giudice.

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Si allunga intanto la fila dei singoli provvedimenti giudiziari che ribaltando decisioni amministrative prese in applicazione del decreto Piantedosi, il decreto spazza-ong dal Mediterraneo, sbriciolano dal punto di vista giudiziario la guerra del governo Meloni ai migranti. Tranne un caso a Massa Carrara, i fermi delle navi in porto come rappresaglia per aver fatto soccorso a naufraghi sono stati sospesi.

“Travisamento dei fatti” e “compromissione dello svolgimento di indifferibili attività di carattere umanitario” svolte, c’è scritto nella sentenza del giudice della prima sezione Civile del Tribunale di Crotone, Antonio Albenzio, che il 18 marzo ha sospeso il provvedimento di fermo amministrativo di venti giorni della Humanity 1, la nave della Ong tedesca che il 4 marzo scorso ha portato a terra nel porto di Crotone 77 persone salvate due giorni prima in acque internazionali al largo della Libia.

La Guardia costiera libica ha sparato in acqua per impedire il soccorso, provocando il terrore tra i naufraghi. Alcuni sono caduti in acqua, almeno uno è affogato. Dice l’avvocata Giulia Crescini: Il fermo della Humanity è l’ultimo dei provvedimenti con cui le autorità italiane stanno sistematicamente sanzionando le ong che effettuano soccorso in mare con il fine sempre più paradossale di ostacolare la loro attività umanitaria

. Proprio l’importanza di tale attività umanitaria è stata individuata dal giudice di Crotone che, a seguito del ricorso, ha deciso di sospendere l’efficacia del fermo e rimettere in libertà la nave. Preoccupa l’atteggiamento criminalizzante delle ong nonostante le condotte sempre più aggressive e sfacciatamente illegittime da parte della Libia. La stessa Humanity 1 è stata fermata perché accusata di non avere rispettato le indicazioni impartite e di avere per questo posto in essere una condotta pericolosa. Ciò nonostante ciò che realmente è accaduto è che mentre svolgeva un legittimo soccorso la Humanity è stata interrotta dal sopraggiungere di una motovedetta libica che ha aperto il fuoco sulle persone e sull’equipaggio”.

Il 21 febbraio una identica decisione di sospensione del fermo è stata presa dal tribunale di Brindisi nei confronti della Ocean Viking, nave della ong Sos Mediterranée, bloccata perché accusata di non aver rispettato gli ordini dei libici.

La giudice Roberta Marra ha scritto che la non sospensione del fermo avrebbe pregiudicato “in modo irreversibile” il diritto della ong di “esercitare la propria attività di soccorso in mare, in cui si realizzano le sue finalità sociali”, “obiettivi di indubbio valore” e che ciò avrebbe leso il diritti alla “libera iniziativa economica (art. 41 Cost.), ma anche il diritto fondamentale alla manifestazione del proprio pensiero (art. 21 Cost.) e quello all’associazione (art. 18 Cost.)”.

Una delle tante assurdità nella meticolosità con cui si applicano le norme Piantedosi sta nel fatto che non esiste una base giuridica all’imposizione della necessità di una autorizzazione per fare un salvataggio di naufraghi. Esiste invece il diritto internazionale che obbliga chi naviga a prestare soccorso ai naufraghi.

Ed esiste una sentenza della Cassazione che illustra le ragioni per cui non si deve affidare naufraghi alle autorità libiche. E non è irrilevante che, nonostante quella recente sentenza, si possa ascoltare in una Aula di tribunale, come avvenuto a Brindisi, l’Avvocatura dello stato accusare una nave di salvataggio di aver “ostacolato l’attività libica che ha dovuto fermarsi per evitare la perdita di vite umane”. È l’avvocatura dello Stato a parlare! Una menzogna di questa portata è scandalosa, invece non ha fatto scandalo.

Nel caso della Ocean Viking è stata tirata in ballo anche la legittimità della norma che prevede il fermo della “nave utilizzata per commettere la violazione”. Ogni sanzione amministrativa dovrebbe sempre essere modulabile in modo proporzionale all’entità della violazione, mentre il fermo non lo è.

I legali della Sos Méditerranée contestano anche la costituzionalità della norma che attribuisce alle autorità italiane il potere di sanzionare navi battenti bandiera non italiana per atti avvenuti in acque internazionali. La norma confligge con la Convenzione Unclos, secondo cui le navi in tali acque sono sottoposte alla giurisdizione esclusiva del paese di bandiera.

Dubbi di legittimità anche sulla disposizione che prescrive al comandante di procedere “senza indugio” verso il porto di sbarco assegnato vietandogli altri salvataggi, salvo autorizzazione del Centro di coordinamento soccorsi. La Convenzione Unclos sancisce il dovere di soccorrere immediatamente le persone in pericolo, non prevede condizioni.

Dopo le sentenze di Catania riguardo la cauzione di circa 5.000 euro imposta dal governo Meloni ad alcune categorie di migranti per evitare la reclusione, la Corte di Cassazione ha chiamato la Corte di Giustizia della Ue a pronunciarsi sulla legittimità della misura, e quindi del trattenimento stesso.

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