“Netanyahu vuole trascinare gli Usa in guerra”, parla Stefano Silvestri

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Il Medio Oriente sull’orlo del precipizio. Da Gaza a Teheran. L’Unità ne discute con uno dei più autorevoli analisti italiani di politica estera e geopolitica: Stefano Silvestri, già presidente dello IAI (Istituto Affari Internazionali) e oggi consigliere scientifico.

Il professor Silvestri è stato anche docente sui problemi di sicurezza dell’area mediterranea presso il Bologna Center della Johns Hopkins University e ha lavorato presso l’International Institute for Strategic Studies di Londra.

Professor Silvestri, partiamo dalla “notte dei droni”. Quali risultati ha prodotto per l’Iran?
Sul piano strettamente militare, quello iraniano è stato un flop. Un attacco così massiccio aveva senso se puntavi a saturare le difese antimissili e antiaeree israeliane, nella speranza di far passare un certo numero di mezzi attaccanti. Questa saturazione non è avvenuta. Qualche mezzo è passato, perché ci sono sempre margini di errore, ma roba da poco. E questo sia perché ha funzionato il sistema di difesa israeliano, che è molto fitto, ma anche perché c’è stata la collaborazione importante americana, francese, britannica, giordana. Un combinato disposto che ha fatto funzionare il sistema allargato di difesa aerea, messo in piedi dagli americani e di cui gli israeliani si servono. Nel complesso, un tale sistema ha dimostrato di poter bloccare un attacco di questo genere, anche in dimensioni così massicce. Col senno del poi, si può disquisire se contemporaneamente Hezbollah avesse utilizzato contro Israele tutti i suoi razzi, così pure Hamas, qualcosa di più sarebbe passato, ma a quel punto si sarebbe dovuto mettere in conto la reazione israeliana che avrebbe investito massicciamente il Libano oltre che portato all’avvio dell’operazione di terra a Rafah. Credo che l’Iran abbia voluto fare un attacco sì ma in qualche maniera limitato. Forse speravano in qualche successo in più ma, a mio avviso, non volevano provocare una guerra generalizzata.

E ora Israele?
Adesso Israele ha un nemico ufficiale, in uno Stato: l’Iran. Che ha detto chiaramente che Israele non dovrebbe esistere. È un nemico esistenziale. In questo consiste la novità dell’attacco di sabato notte. Non tanto la sua pericolosità, ma il fatto che, per la prima volta, avviene da territorio nazionale a territorio nazionale. Da paese a paese. Non più per interposta milizia.
La tentazione di Netanyahu è quella di fare la guerra all’Iran, anche perché in questa maniera resterebbe Primo ministro a vita. Sono ore concitate, tutto può accadere, tante sono le variabili sia esterne – la pressione americana al contenimento della reazione israeliana – che interne – in particolare nel Gabinetto di guerra dove è presente l’uomo di Biden, Benny Gantz.
Si possono capire le preoccupazioni degli israeliani, che però debbono trovare la migliore strategia per farvi fronte. Non è affatto detto che un atteggiamento più bellicoso, che moltiplichi attacchi e provocazioni limitate, avrebbe risultati positivi. Al contrario, potrebbe accrescere la determinazione degli avversari. D’altro canto, non sembra che Israele abbia le capacità militari per infliggere un colpo decisivo all’Iran, per esempio distruggendo i laboratori impegnati nel programma nucleare. Si tratta di un paese lontano. Certo, potrebbero lanciare dei missili, un attacco aereo è più pericoloso anche perché dovrebbero rifornirsi in volo e per far questo avere l’appoggio americano, che non sembra esserci. Sarebbero punture di spillo che nella speranza di Netanyahu dovrebbero provocare altre reazioni iraniane, innescando una catena di azione-reazione per arrivare al punto massimo di rottura, ambito da Netanyahu, visto come un incubo da Biden, soprattutto nell’anno delle presidenziali…

Vale a dire?
Spingere la situazione al punto da costringere gli americani a una nuova guerra del Golfo. Questo potrebbe essere il sogno di Netanyahu. Ma questo gli americani non glielo permetteranno, per lo meno ci proveranno, poi dipenderà da Israele.

Per Israele e la sicurezza regionale, Benjamin Netanyahu è parte del problema o della soluzione?
Buona la prima. Netanyahu è certamente parte del problema. Anche perché questo attacco iraniano ha sortito un risultato interessante. Ha messo in secondo piano il conflitto con i palestinesi e ha fatto riprendere i rapporti anche con l’Arabia Saudita. Un governo israeliano politicamente intelligente userebbe questa situazione per dire abbiamo un nemico comune. Cerchiamo di risolvere il problema dei terroristi palestinesi e poi dei palestinesi nella maniera migliore, vedremo come, apriamo dei negoziati, e nel frattempo rafforziamo la nostra comune difesa nei confronti di questi pazzi iraniani che vogliono destabilizzare tutta la regione per arrivare al trionfo degli sciiti. Un discorso di questo genere secondo me avrebbe un certo appeal politico in vari paesi arabi, i quali, però, non possono seguirlo troppo se nel contempo va avanti la distruzione dei palestinesi. Non dico di dimenticarsi di Hamas, al contrario, continuare ma non con azioni massicce contro la popolazione di Gaza. Una normale lotta al terrorismo. In questo modo, mettendo anche in difficoltà quei paesi arabi che oggi ospitano la leadership di Hamas.

Ad esempio?
Il Qatar, per dirne uno. Non può contemporaneamente ospitare Hamas, la base americana, la base francese, la base turca…Essere amico degli Emirati Arabi Uniti e adesso di nuovo anche dell’Arabia Saudita per poi essere anche sponsor dei terroristi che sono uno dei bracci armati dell’Iran. Questo è complicato, va detto. Ci sono paesi arabi, come l’Iraq ad esempio, che hanno difficoltà a rompere ogni legame con l’Iran, vista la forte presenza sciita interna. Pur tenendo conto di tutte le difficoltà, è un gioco politico che Israele potrebbe condurre.

Ma con un governo come quello attuale?
Mi pare alquanto improbabile. Netanyahu non vuole discutere dei palestinesi ma solo di soluzioni militari. Tutto sembra quindi dipendere dagli equilibri interni della coalizione di governo israeliana e dalla capacità degli avversari dí Netanyahu di condizionare le scelte del gabinetto di guerra e di affrettare una conclusione delle operazioni militari nella striscia di Gaza, per poter poi andare a nuove elezioni.

Analisti quotati, dentro e fuori Israele, avanzano la teoria che Netanyahu voglia prolungare la guerra, magari estendendola, fino a novembre, alle elezioni presidenziali americane, con la speranza, tutt’altro che campata in aria, che alla Casa Bianca torni il suo grande amico e sodale Donald Trump.
Si tratterebbe di aspettare fino a gennaio prossimo! È possibile, diciamo pure probabile, che Netanyahu coltivi questo sogno, ma se gli israeliani glielo fanno fare sono dei suicidi. Non sono così addentro alla realtà politica israeliana, che non è certo semplice da decifrare anche per un sistema elettorale che dà un potere di interdizione molto forte anche a partiti minori, generalmente su posizioni estreme, soprattutto a destra. Pare, però, che si faccia sempre più strada la volontà di andare a nuove elezioni. Paralizzare la situazione politica interna a Israele, lasciando Netanyahu al governo per condurre una guerra che non ha sbocco, a me sembra alla lunga una scelta suicida.

Professor Silvestri, siamo dentro un disordine globale, sempre più minaccioso, e non s’intravvede una governance multipolare in grado di far fronte con le armi della politica e della diplomazia.
Questo è parzialmente vero. Prendiamo la Cina. Il governo cinese non ha condannato l’Iran, però ha invitato immediatamente a una forte moderazione tutti quanti, convincendo anche la Russia, sempre più dipendente da Pechino, a mandare un messaggio analogo che sembra ricalcato sulla dichiarazione cinese. Sia dalla Cina sia dagli Stati Uniti vengono dei messaggi che sono di fatto convergenti. Il che fa sperare che prima o poi un qualche equilibrio si possa trovare, quanto meno per evitare il peggio. Certo, fa un po’ ridere la dichiarazione di Khamenei che bisogna trovare un mediatore, indicando come tale Putin. È chiaro che Putin impegnato com’è nella guerra in Ucraina e in un confronto-scontro ideologico totale con l’Occidente, come mediatore non è il massimo della credibilità. Ma tutto questo fa pensare che vi siano pressioni per evitare il peggio.

In questo scenario in drammatico movimento, l’Europa?
L’Europa, con i francesi e gli inglesi, si è chiaramente schierata con gli americani nella difesa d’Israele, prima, e poi nel consigliare di non reagire spropositatamente all’attacco iraniano. Per dirla in parole povere, l’Europa ha scelto la linea Biden. Cosa che mi sembra essere stata confermata anche dalla riunione del G7. Non c’è una iniziativa autonoma dell’Europa nel Medio Oriente. L’Europa potrebbe avere qualche spazio di discussione con alcuni paesi arabi, forse l’Egitto o gli Emirati, ma è comunque marginale rispetto alla situazione, per il semplice fatto che Israele ascolta soltanto gli Stati Uniti, per quel poco che li ascolta, non certo l’Europa. L’Europa potrebbe provare a giocare un ruolo se riprendesse il dialogo con l’Iran, ma dovrebbe esserci anche la cooperazione americana, sul nucleare. Se cioè potesse orientare la politica iraniana, agendo su questo tavolo, verso una maggiore moderazione. Ma in questo momento sembra che l’Iran abbia ripreso in pieno l’arricchimento dell’uranio, non c’è un vero dialogo tra Teheran e Washington, per quanto gli Stati Uniti ci abbiano provato, e l’Iran è legato a doppio filo con la Russia. C’è più il rischio di una saldatura tra il conflitto in Ucraina e quello in Medio Oriente che la prospettiva di una scelta moderata. L’Europa non ha grandi strumenti d’intervento autonomo, ha il vantaggio, mettiamola così, di avere un presidente degli Stati Uniti che ragiona grosso modo come un europeo e quindi lo può appoggiare tranquillamente.

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