O.J. Simpson, il primo nero a vincere in un tribunale degli Stati Uniti d’America

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È morto O. J. Simpson. Aveva 76 anni. È stato – dicono – il più grande giocatore di football americano di tutti i tempi. Una specie di Pelè del Rugby. Ma è conosciuto in tutto il mondo non solo per questo (e tantomeno per la sua breve carriera di attore), ma soprattutto per il processo che affrontò e vinse, sbaragliando l’accusa che lo riteneva colpevole dell’assassinio di sua moglie. Simpson era un atleta amato e nero. Una specie di divinità per la comunità afroamericana. E il popolo americano si divise nettamente in due durante quel processo che fu, credo, il più seguito del secolo scorso. Da una parte i bianchi colpevolisti, dall’altra i neri innocentisti.

Ero a New York il 3 ottobre 1995. Andai ad Harlem e poi nel Bronx. Fu una festa, un tripudio popolare. I neri festeggiavano ovunque, nelle case, nei bar, per le vie e le piazze. Vissero l’assoluzione come un riscatto. Cosa era successo? Per la prima volta un nero aveva vinto in tribunale proprio perché era nero. Non era mai successo. I neri erano stati sempre penalizzati dalla loro pelle. Quella volta un grandissimo avvocato, Johnnie Cochran riuscì con le indagini difensive a scoprire che lo sceriffo che aveva raccolto montagne di prove che dimostravano come O.J avesse ucciso la moglie (Nicole Brown) aveva un robusto passato razzista.

E poi riuscì a contestare e far sostituire uno ad uno i giurati bianchi, dimostrando anche il loro pregiudizio razziale, e a sostituirli con giurati neri. La giuria cancellò tutte le prove raccolte dallo sceriffo perché lo sceriffo non era attendibile. E contro O. J. non restò nulla. Tranne il buonsenso. L’America bianca inghiottì amaro. Era una vittoria del garantismo? Chissà. Una vittoria della causa dei neri? Beh, era solo la prova che se sei miliardario te la cavi anche se sei nero.

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