Perché il lavoro va riformato: dalle 8 ore all’IA, vecchie e nuove sfide della sinistra

RMAG news

Il 1° di maggio del 1866 fu istituita, per la prima volta, nell’Illinois la giornata lavorativa di otto ore a seguito di un grande movimento di protesta di lavoratori.

Negli anni seguenti la giornata di otto ore si estese in Europa e in primo luogo in Gran Bretagna sostenuta dai primi movimenti socialisti e laburisti che poi si raccolsero intorno alla Prima internazionale.

La riduzione dell’orario di lavoro ha avuto sempre ed ha tuttora un significato centrale nelle lotte per i diritti del lavoro, per la riduzione dello sfruttamento, contro l’alienazione derivante dal “macchinismo” e dalla produzione seriale – soprattutto a partire dagli anni Trenta fino agli anni Settanta con la affermazione del sistema produttivo “fordista” – e per la rottura della relazione diretta tra salario, prezzo e profitto da cui deriva, secondo la originaria lettura marxista, la determinazione del pluslvalore nel processo industriale.

Ancora oggi, in un contesto completamente cambiato tra componente operaia e umana del lavoro e elemento tecnologico la riduzione dell’orario di lavoro ha un significato importantissimo non fosse altro per il fatto che l’introduzione di nuove tecnologie nell’industria e nei servizi non ha ridotto il tempo di lavoro ma ha ridotto l’occupazione, modificato l’insieme delle funzioni complessive della produzione diversificando, polverizzando e settorializzandone i comparti – soprattutto nei servizi – e generato nuove forme di sfruttamento dell’elemento umano.

Ecco quindi che l’attualità della Festa dei lavoratori si caratterizza come ricorrenza connaturata alla società tecnologica nella quale la progressiva affermazione della tecnica come fattore di accompagnamento – o come oggi si direbbe “complementare” – della forza fisica o della capacità intellettuale dell’uomo impone la ricerca di un continuo equilibrio tra persona e macchina nella produzione di un bene materiale o immateriale.

In alcuni scritti giovali dell’Ideologia Tedesca, segnati da una fortissima componente utopica, Marx sembra vagheggiare una condizione di sviluppo tecnologico dell’umanità in cui la tecnica perde il carattere strumentale legato alla produzione e si stacca dall’uomo, lasciandolo libero di coltivare una tecnica strumentale non legata alla produzione ma all’arte e quindi alla crescita umana e allo spirito con una sostanziale “abolizione del lavoro”.

Se guardiamo agli scenari che oggi si presentano con l’IA c’è da rabbrividire su una certa potenza visionaria del pensiero giovanile di Marx anche se non sul suo esito finale.

Numerose ricerche degli ultimi anni, in particolare uno studio recentissimo del Fondo Monetario Internazionale, ci dice che circa il 60% del lavoro attuale rischia di essere distrutto dalla progressiva introduzione nella produzione di beni e servizi dell’Intelligenza artificiale.

Non siamo più in tempo per graduare il percorso, la macchina è lanciata spaventosamente nel futuro, ma occorre concentrarci sulle reti di protezione e di tutele che, in una fase transitoria, si rendono necessarie prima che la curva distruttiva delle professioni si assesti iniziando a produrre nuove professioni ed a riallargare i ranghi dell’occupazione; processo che appare certo.

Quello che più colpisce sono due dati generali, sui quali per la verità esistono punti di vista articolati dei vari analisti. Il primo ci dice che saranno in prevalenza le fasce medio alte di lavoro intellettuale e specializzato ad essere colpite dagli effetti di diradamento del lavoro umano.

Quindi in prevalenza il lavoro intellettuale rispetto al lavoro operaio. È come se la tecnica applicata alla produzione abbia compiuto un viaggio ascensionale dagli anni 80 ad oggi sconvolgendo prima i presidi operai e ora quelli intellettuali e tecnici del lavoro.

Sono chiare le conseguenze sul piano politico e sociale, sulla crisi della democrazia, del tratto fortemente identitario ed etico del lavoro nel mondo politico, sulla estremizzazione politica dei ceti medi, sulla crescita della demagogia e del populismo.

In secondo luogo viene messa in luce la ricaduta più forte che questi processi stanno per avere sui Paesi maggiormente avanzati, sull’aumento delle diseguaglianze a livello mondiale e sulle difficoltà dei Paesi meno avanzati nel tenere il passo dell’innovazione.

La grave crisi della democrazia americana sembra parlare un linguaggio chiaro, in tal senso. Ma c’è un’ultima domanda che dobbiamo porci: la produzione di ricchezza derivante dalla straordinaria capacità produttiva in termini quantitativi e qualitativi e dalla straordinaria capacità di lettura e interpretazione del mercato che si determina con l’IA dove va a finire?

Va finire nelle tasche di fasce ristrettissime di popolazione che dentro invincibili torri d’avorio vedono il resto dell’umanità scannarsi sotto le loro mura per sopravvivere e maturano anche l’idea che una guerra nucleare possa lasciarli indenni in virtù della loro prometeica capacità di autotutela da tutto e tutti.

Il vertice di Davos ha eloquentemente dimostrato come la ricchezza si sia negli ultimi decenni concentrata in pochissime mani e poiché con l’IA tali tendenze saranno supersonicamente accelerate. Si può ben dire che siamo solo all’inizio di una polarizzazione di ricchezze come mai conosciuta nella storia umana.

Tutti i ricercatori mondiali e gli analisti mondiali concordano su un fatto che appare evidente a tutti ma che impone un radicale stravolgimento e inversione delle tendenze in atto.

Occorre un piano di formazione mondiale delle donne e degli uomini, degli individui, fin dai primi anni di vita, che consenta di rendere il più possibile le loro capacità complementari con l’uso delle nuove tecnologie, cosa che si accompagna d una potente snazionalizzazione dei processi formativi per lo meno nella loro componente tecnologica.

Occorrono possenti investimenti sulla scuola e sulla formazione pubblica in termini edilizi, tecnologici, di programmi educatici e formativi, di ricerca applicata. E queste risorse non possono che derivare da politiche fiscali su tutte le scale – nazionali, continentali e mondiali – che siano una componente della redistribuzione delle potenti ricchezze e dell’enorme pluslavalore generato da una tecnica avanzatissima, una ridotta componente salariale, un minor bisogno di materie prime massive, almeno nel segmento finale della creazione delle macchine, dei robot e cosi via.

Si pongono come mai prima le condizioni di una grande alleanza tra lavoro operaio – che resterà in forme frastagliate e sotto specializzate – e lavoro intellettuale e tecnico minacciato oggi come ieri lo è stato quello operaio classico.

Con quale obbiettivo? Rallentare l’innovazione? Assolutamente no. Semmai trarre dall’innovazione tutte le condizioni per un salto di civiltà e per una parziale “liberazione” dal lavoro alienato, con un nuovo ruolo dello Stato e del pubblico anch’esso sospinto nel futuro da nuove possibilità di efficienza e capacita e forza di investimento secondo una condotta riformista, keynesiana, di equilibrio sociale e non di ribaltamento del capitalismo come sistema.

Il mondo del lavoro, dei lavori è vorticosamente cambiato sotto l’impulso ininterrotto di una rivoluzione tecnologica che negli ultimi 30-40 anni ha distrutto e distrugge ancora più vecchia occupazione di quanto non riesca a crearne di nuova con investimenti formativi che oggi non sono alla portata, in Europa, dei singoli stati nazionali.

Si sta iniziando ora con N.G.EU. Questo processo ha nesso in discussione il “lavoro” come dimensione sociale aggregata ma anche come valore e persino come etica colpendo in profondità una delle stesse ragioni ideali, identitarie e di radicamento della sinistra in tutto l’Occidente.

La sinistra che fonda le sue radici sul lavoro ne è uscita indebolita mentre sono sorti nuovi movimenti estremisti di destra, neofascisti, xenofobi, razzisti, nazionalisti.

Oggi la ricomposizione di una prospettiva ideale e utopica del mondo dei lavori e di una alleanza tra lavoro operaio e lavoro intellettuale e tecnico che fa dell’IA la leva per politiche di nuovo welfare e di maggiore giustizia sociale e di liberazione dal lavoro alienato, compresa una forte riduzione dell’orario di lavoro, può non essere del tutto astratta.

Ma serve un risveglio culturale e un pensiero della sinistra e una nuova declinazione del principio “socialista”. Il Primo maggio non perde attualità e non la perderà ancora per tantissimo tempo.
Perché in questa festa ci sono le basi di una nuova idea di civiltà e di umanità.

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