Perché si festeggia il 25 aprile, la festa della liberazione in un paese diventato illiberale

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Sconfortante, come termometro dei rapporti di forza misurabili in questo 25 aprile, è la supplica reiterata rivolta al governo perché conceda una professione di fede in senso antifascista per sciogliere così in radice la questione dei rigurgiti di autoritarismo divampati nelle democrazie occidentali.

Basterebbe, per disarmare il chiacchiericcio sulla carenza di legittimazione della Fiamma, che i ragazzi di Colle Oppio al potere ricordassero la lezione aurea dei missini, maestri nella passerella con il doppio petto, e quindi decidessero di indossare le maschere adeguate per “sembrare” – senza “essere”antifascisti.

Rinunciano a questa finzione, invece, proprio perché guardano oltre un equilibrio di culture, istituzioni e forze sociali che considerano ormai scricchiolante. Non avrebbe alcun significato risarcitorio ascoltare un inno alla Resistenza da parte della statista che, quando era ancora in formazione, si presentava in televisione con la croce celtica al collo, e lo faceva non certo per certificare una attrazione estetica verso il marchio di un orologio svizzero.

Lo stesso effetto produrrebbe un ravvedimento antifascista da parte di chi si inebria a ripulire il busto del duce e apprezza la melodia della banda musicale che si esibiva a via Rasella. Che gli sconfitti nel settembre del 2022 rimuovano le loro responsabilità politico-culturali e si appellino ai vincitori affinché non maltrattino i simboli della Repubblica lasciata sguarnita, è un ulteriore segno di impotenza.

Con il trionfo degli “esuli in patria” (agevolato da una legge elettorale irrazionale imposta dal centrosinistra), muta in radice il profilo del sistema politico. La vittoria elettorale viene potenziata dalla destra in direzione di una più estensiva autorizzazione ad imprimere il sigillo della cesura qualitativa.

C’è ancora la Costituzione scritta, mancano però i soggetti che la riconoscono come una radice identitaria condivisa e un progetto di società perseguibile. È cominciata così una classica situazione di interregno, con il vecchio ordinamento ferito che giace quasi esangue e il nuovo sovrano che, senza infingimenti, cerca di forzare la mano in modo da imporre un assetto dei poteri sprovvisto di argini contro lo scivolamento autocratico.

È arduo risolvere una crisi di legittimazione con le parole di abiura che attestano l’avvenuta conversione dei cuori neri alla riconquistata grammatica repubblicana. Invece di sognare qualche provvidenziale mutazione, o di guardare lo specchietto retrovisore per scorgere il sopraggiungere di storie di ieri, andrebbe compresa l’insidia attuale di un governo che reclama il potere costituente per tagliare in radice il ronzio fastidioso delle origini.

Con il premierato assoluto e l’autonomia differenziata la Costituzione diventerebbe una carta muta, e solo a quel punto, a lavoro ultimato, la sua scottante genesi dalla Resistenza verrebbe superata, per di più in nome della ingannevole concessione al popolo del mitico potere di eleggere il suo capo.

Sulla Stampa di martedì un editoriale derubricava a pura opzione di marketing, senza ulteriori significati teorici, la proliferazione di partiti personali. A riprova di questa asserzione portava dei riferimenti storici sbagliati per cui “il partito personale per antonomasia”, quello di Berlusconi, non indicava il nome del capo nello stemma (cominciò invece a farlo nel 2006, tra le proteste di politologi come Sartori e Fisichella, e lo mantiene persino ora che il fondatore è scomparso), al pari del M5s che “di nomi, nel simbolo, nessuna traccia” recava (nel voto del 2013 il logo sulla scheda conteneva proprio la dizione beppegrillo.it).

Il premierato elettivo, che unifica due poteri nel solo corpo del presidente eletto, il quale con la propria unzione recide l’autonomia del parlamento e in prospettiva degli organi di garanzia, rappresenta il compimento di una curvatura della potestà personale che inverte la weberiana categoria del potere formale-legale come indicatore della spersonalizzazione-razionalizzazione dell’autorità.

La incomprensione delle ricadute della personalizzazione dei partiti e del potere facilita la presa del verbo carismatico che dispone il pubblico passivizzato nell’attesa salvifica di un leader. Non è Palazzo Chigi che deve allontanare lo spettro del potere monocratico strisciante, riconciliandosi con le libertà dei moderne magari grazie a una trovata verbale rassicurante circa le interiori credenze antimussoliniane, ma è la sinistra che ha il compito di costruire una potenza di massa capace di sconfiggere il disegno incipiente di democrazia illiberale, bisognoso, nel suo avanzare, del soccorso di un radicale revisionismo storico.

Il nodo è quello non già di indurre la destra a inghiottire la parolina magica “antifascismo”, ma di ricostruire un riconoscimento di popolo nei valori e nelle istituzioni della Costituzione, e rendere così la sua “bellezza” non semplice materia di monologhi edificanti, bensì una rude forza reale.

Solo una Costituzione vivente, non oggetto di una venerazione museale, può respingere il potere costituente di una destra che non è la parodia di cose già viste – benché ne riponga alcuni caratteri, non solo esteriori –, ma ha una chiara strategia politica.

I condoni infiniti, la tassazione di favore per categorie, l’innalzamento del tetto al contante, la privatizzazione della sanità, una visione (quando è presente) puramente assistenziale dei bisogni, tutto ciò mira a edificare uno Stato corporativo dei padroncini.

Al culto del denaro e della libertà dal fisco o “pizzo di Stato” la destra dal bonus facile aggiunge la cura dell’immaginario, che viene costantemente stuzzicato attraverso la denuncia dell’aggressione islamica ai valori identitari cristiani; le misure repressive dei raduni giovanili e dei furti nelle metro; le direttive ai porti per ostacolare l’accoglienza e scacciare così lo spauracchio della “sostituzione etnica” montante dai barconi; la sorveglianza sul corpo delle donne da punire, come qualcuno ha detto, con il “delitto di aborto”; la svolta linguistica che non teme il ridicolo nella litania su Patria, Nazione, made in Italy, “sovranità alimentare” per vino, olio e formaggio.

Quando poi la divisa e il manganello diventano oggetto di culto per colpire ogni conflitto, significa che il governo cerca di politicizzare gli organi neutrali dello Stato per restringere gli spazi della mobilitazione collettiva.

In tempi di contrazione autoritaria che procede dagli Stati Uniti all’Europa, l’antifascismo ha un senso solo se lavoro e pace diventano le bandiere identitarie della sinistra europea. Con i capi dei socialisti che nel vecchio continente subiscono il fascino della guerra e reclamano il rumore degli anfibi, un movimento di resistenza alle destre radicali diventa un’impresa romantica e disperata.

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