CGIL all’attacco: un referendum per ripristinare l’articolo 18, baluardo dello Statuto dei lavoratori

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La Cgil torna in campo. Sui suoi temi classici. Ha deciso di tentare la sfida del referendum per ripristinare il famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. È complicato nelle attuali condizioni della politica, e dei suoi rapporti con il popolo, vincere un referendum. Chi si oppone al referendum, di solito, adopera con facilità l’arma dell’astensione.

In un paese nel quale raramente vota più del 50 per cento degli aventi diritto è molto facile aggiungere i voti di una parte politica alle astensioni spontanee e dunque impedire a chi ha promosso il referendum di ottenere il quorum del 50 per cento degli aventi diritto necessario perché il referendum sia valido.

La Cgil ha deciso di tentare la sfida. Su un argomento fondamentale. Perché, per svariate ragioni, l’articolo 18 dello Statuto è un baluardo, sia simbolico sia pratico, dei diritti dei lavoratori. Non occorre essere grandi sociologi per sapere che negli ultimi 40 anni il potere dei lavoratori è precipitato.

Dico 40 anni perché parto dalla data della prima rovinosa sconfitta del movimento operaio, che è avvenuta tra l’inizio del 1984 e l’estate del 1985. Con il varo del decreto che bloccava la scala mobile (cioè l’aumento automatico dei salari e degli stipendi, agganciato all’inflazione), poi con la sconfitta parlamentare del Pci che si opponeva a quel decreto, poi, nel 1985, con la nuova sconfitta del Pci al referendum che chiedeva l’abrogazione di quella legge e il ritorno alla scala mobile.

Da allora il movimento operaio ha visto progressivamente ridursi la sua forza, e la classe dei lavoratori perdere ogni potere e una parte non piccola dei salari. Oggi è persino sparita dal lessico l’espressione “movimento operaio”.

Quasi del tutto sostituita da un termine un po’ miserello: “centrosinistra”. È l’ironia della storia, perché l’inizio della fine del movimento operaio fu determinato proprio da un governo di centrosinistra (costruito sulla spina dorsale dell’accordo Psi-Dc) e cioè dal governo Craxi.

Da allora i diritti dei lavoratori si sono via via assottigliati e si sono assottigliati i salari e gli stipendi. Mentre in tutti i grandi paesi europei il potere d’acquisto dei lavoratori saliva consistentemente, fino al 20 e al 30 per cento, in Italia salivano solo i profitti e le rendite, mentre i redditi dei lavoratori scendevano in modo significativo.

Non credo che sia una posizione estremista quella di chi dice che oggi i principali problemi della nostra economia sono due: la debolezza dei lavoratori e la povertà. È dell’altro giorno la notizia, certificata dall’Istat, di un nuovo robusto aumento della povertà.

Determinato in parte dall’inflazione (dovuta soprattutto alle scelte di guerra del governo Draghi e poi del governo Meloni) in parte da provvedimenti tutti favorevoli ai ceti più forti, e draconiani verso le fasce più deboli. Compresa l’abolizione del reddito di cittadinanza, che, seppure tra tanti limiti, costituiva un sostegno per i poveri.

È in queste condizioni che il sindacato torna in campo e si pone finalmente in una posizione offensiva. Non di semplice difesa. Non succedeva da decenni. E l’obiettivo da colpire è il secondo grande provvedimento che in questo quarantennio ha danneggiato i lavoratori: l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Cioè quella legge concepita dai vecchi ministri del lavoro (Brodolini, socialista, e Donat Cattin, democristiano) per proteggere i posti di lavoro e ridurre il potere discrezionale degli imprenditori sui lavoratori. L’articolo 18 è sempre stata l’anima e il volto dello Statuto.

Lo Statuto dei Lavoratori fu costruito nella seconda metà degli anni sessanta e divenne legge nella primavera del 1970, ancora sulla spinta dell’autunno caldo, e cioè mentre ribolliva la rivolta studentesca se la riscossa operaia.

Fu una grande vittoria del movimento operaio, in una situazione politica tesissima. Una parte importante della borghesia italiana non aveva accettato la via del compromesso, di fronte all’avanzata operaia e al movimento dei giovani che batteva alle porte del potere. Aveva reagito con la grinta e le bombe. Repressione e terrorismo nero. Piazza Fontana, tentativo di golpe Borghese. Volevano una svolta reazionaria.

I partiti di governo tentarono una mediazione (Moro, Nenni, La Malfa, il presidente Saragat), i sindacati spingevano verso una svolta socialista (specialmente i metalmeccanici di Trentin, Macario, Carniti e Benvenuto). Il ministro del lavoro Brodolini, che aveva immaginato lo Statuto, insieme a Gino Giugni e altri esponenti e studiosi socialisti, morì prima di poterne vedere l’approvazione.

Il suo lavoro fu proseguito da Carlo Donat Cattin, leader della sinistra sociale della Dc. A Maggio lo Statuto diventò legge (con l’astensione del Pci) e da allora è restato la bandiera, il simbolo della resistenza operaia.

Fu Berlusconi il primo a metterlo in discussione. Dopo più di trent’anni. Nel 2002. Ma Berlusconi era un uomo politico accorto e sensibile agli umori del paese. La Cgil di Cofferati portò in piazza tre milioni di persone a difesa dell’articolo 18.

Forse la più grande manifestazione politica mai svoltasi in Italia. Berlusconi capì e si fermò. Più di dieci anni dopo fu di nuovo un governo di centrosinistra (come era successo nel 1984) ad affondare l’assalto. E vinse. L’articolo 18 fu abolito dal governo Renzi nella primavera del 2014 col famoso Job Act.

Negli ultimi mesi la sinistra ha ripreso la battaglia, muovendo sul versante del salario minimo. Che non ha niente a che fare col Job Act né col potere dei lavoratori in fabbrica, ma potrebbe costituire un argine, seppur modesto, al lavoro sottopagato. La richiesta della sinistra è quella di fissare un minimo di 9 euro lordi alla paga oraria. Per legge.

Il Governo però ha fatto muro e ha respinto la richiesta. Sostenendo che a determinare le paghe deve essere la libera contrattazione. Nazionale e aziendale. Il problema è che, come abbiamo appena raccontato, i rapporti di forza tra lavoratori e impresa non sono più quelli degli anni 70. E dunque la contrattazione favorisce sempre l’impresa, mai il lavoratore. Il salario minimo sarebbe un punto di forza anche nel corso della contrattazione.

Il referendum è una sfida ardita. La posta è enorme. Se i sindacati dovessero vincerla forse davvero si invertirà la curva che da quasi mezzo secolo spinge sempre più giù il mondo del lavoro. Può darsi che per la sinistra si apra una strada per uscire dalla sua crisi.

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