Chi era Paul Auster, un uomo solo abitato dagli altri

RMAG news

“La solitudine è la verità della nostra vita. Gli altri ci stanno intorno, ma si vive da soli”. Così Paul Auster, scomparso l’altro ieri all’età di 77 anni.

Lo scrittore ebreo americano aveva esordito nel 1982 con la Invenzione della solitudine, un saggio/memoir, che vorrei fosse riprodotto all’ingresso di ogni scuola di scrittura creativa (per “solitudine” la lingua inglese ha due termini: loneliness, sentimento di essere abbandonati, e solitude, termine più neutro, il semplice stare soli).

Non si ripete abbastanza spesso che il “mestiere” di scrittore è fatto essenzialmente di solitudine e silenzio, di un contatto non effimero con quella profonda verità dell’esistenza. Guardatevi intorno: oggi lo scrittore per meritare attenzione e visibilità, per vincere premi, per essere invitato a qualche rassegna, deve già essere famoso!

Non importa se lo sia diventato perché – dotato di ammirevole tigna – ha pubblicato tanti libri o, perlopiù, perché frequenta i social, partecipa ai talk, viene candidato alle elezioni, accumula cariche (direzioni di festival, di collane, etc.), l’importante è che sia già “famoso”.

Il contrario della solitudine auspicata da Auster! Se un qualche Comune sperduto ti affida la cura di un ciclo di incontri letterari ti dà carta bianca, ma con un’unica avvertenza: devi invitare almeno un autore compreso in un elenco di famosi, di happy few oggi onnipresenti. Non sempre è stato così: un tempo il merito prevaleva, sia pure di poco, sulla fama.

Torniamo ad Auster. Un momento dopo quella dichiarazione ha voluto precisare: “gli altri ci abitano” continuamente, però poi esiste anche l’amore, che ci permette di “cogliere il mistero dell’altro”.

In questi giorni è stata variamente ricordata l’opera multiforme, picaresca e divagante, dello scrittore del New Jersey (che comprende sceneggiature e teatro) Possiamo ricordare velocemente qualche suo titolo (quasi tutti pubblicati da Einaudi): dal più celebre, la Trilogia di New York, tre detective-story scritte alla fine degli anni 80 (che rispettano le regole del romanzo poliziesco però violandole) alla Musica del caso (1991), un romanzo on the road, dal Libro delle illusioni (2003) su un attore comico del cinema muto misteriosamente scomparso, a Lulu on the bridge (1999), favola malinconica su sassofonista jazz, da Mr Vertigo (1999), su un bambino prodigio di uno spettacolo ambulante, al Leviatano (1995), su un dinamitardo solitario in guerra con la Statua della libertà, e fino al recente 4321 (2017), opera-mondo di respiro epico.

È stato detto che al centro della sua produzione troviamo il caso. L’autore ha voluto correggere, mettendoci la necessità e le contingenze quotidiane. Un po’ giocando potremmo concludere invece che ci ritroviamo il baseball, il vero sport che rappresenta l’America, amato da Auster per il suo ritmo lento, fatto di grande energia e tempi morti, e privo di cronometro (il romanzo Sbarcare il lunario ne è così impregnato che se non si conoscono le regole di quel gioco è impossibile apprezzarlo).

Ma per approfondire alcuni temi dello scrittore seguiamo un libretto prezioso di conversazioni: Una menzogna quasi vera (1998, Minimum Fax). Chi è il vero modello di Auster. Sorprendentemente non un romanziere ma un saggista: Montaigne. Altro che postmodernismo (ha sempre avversato qualsiasi etichetta).

Come lui onesto, digressivo, coraggioso nell’inseguire qualsiasi divagazione, come lui svagato flâneur del pensiero e della scrittura: Montaigne dettava i suoi Essais allo scrivano camminando in lungo e in largo per la sua biblioteca, i personaggi dei libri di Auster camminano, passeggiano, bighellonano.

E, come Montaigne (che forse oggi è più noto Oltreoceano che nella vecchia Europa), convinto che vivere è sia imparare a morire e sia imparare a vivere: non tanto accettare la morte quanto “lasciarla vivere nei minimi gesti della vita”.

Nella conversazione leggiamo che “nessuna esistenza si svolge secondo una linea retta”, piuttosto si caratterizza per l’inatteso e l’imprevisto, per l’incidente e lo slittamento (una improvvisa eredità, una perdita…). Qui lo scrittore fa una considerazione straordinaria: “Sono attratto dagli incidenti che non succedono”.

Ad esempio l’uomo che attraversa la strada ed evita per un pelo di essere investito: “quel millimetro grazie al quale resta in vita mi affascina”. Quasi un invito all’immaginazione, al senso della possibilità, fondamentale alla narrazione. Accanto alla vita di ciascuno ne scorre un’altra, parallela, fatta di tutti quegli incidenti che abbiamo evitato!

In un’altra occasione insiste sul cromatismo della propria scrittura, non tanto e solo “visiva” quanto “interiore”, però sempre sconvolta da un fatto visivo, come le labbra rosa di un personaggio femminile nella Città di vetro. Quanto al suo rapporto con New York, oscilla tra amore e insofferenza.

Una fonte di ispirazione continua, una metropoli poco accogliente benché quietamente tollerante: a Parigi nei locali pubblici ti guardano, ti scrutano, ti spiano, mentre nella Grande Mela nessuno si sofferma con lo sguardo su qualcun altro. Da tempo ha sostituito la scintillante Manhattan con Brooklyn (le zone di Park Slope e Brooklyn Heights), dove c’è ancora il senso del passato.

Infine. Un pensiero rivolto a tutti i fieri nemici del buonismo – in realtà diffidenti verso la bontà -, a tutti i virili sprezzatori di buoni sentimenti. Commentando il film Smoke di Wayne Wang (1995), da lui scritto e tratto da un proprio racconto, osserva che il suo successo dipende da una cosa sola: la totale mancanza di cinismo.

E aggiunge che il cinismo è un riflesso del nostro tempo, altrettanto falso quanto il sentimentalismo dell’Inghilterra vittoriana. Siamo soli, è vero, ma non per questo bisogna indulgere al cinismo.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *