Così stanno ammazzando la sanità pubblica

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L’appello lanciato dal Nobel Giorgio Parisi e firmato da numerosi scienziati di chiara fama per salvare il Servizio Sanitario Nazionale ha, giustamente, alzato il tono del dibattito su una delle funzioni fondamentali dello Stato.

E non si può non partire, per affrontare l’argomento, da un’analisi della spesa per la Sanità pubblica. I numeri dimostrano che quando il Governo afferma di aver aumentato le risorse sulla Sanità dice una cosa non vera. Perché un conto è ragionare in valori assoluti. Un altro è ragionare in percentuale sul Pil.

I circa 134 miliardi stanziati quest’anno per la Sanità, sotto il peso dell’ondata dell’inflazione, rappresentano il 6,2% del Prodotto Interno Lordo. Cioè, una significativa diminuzione rispetto al 6,6% del 2023. E per capire meglio cosa questo significhi, si deve tener conto che la media degli investimenti pubblici nella sanità dei Paesi Ocse è del 7,7% del Pil.

E, soprattutto, che lo standard dei Paesi europei più avanzati è intorno all’8%. Quindi, come affermano gli accademici firmatari dell’appello che lancia l’allarme sullo stato del Sistema Sanitario Nazionale,a queste condizioni la spesa sanitaria non è in grado di assicurare compiutamente il rispetto dei Lea”, cioè dei Livelli Essenziali di Assistenza.

Dunque, questo gap pesa sulla tenuta del Sistema Sanitario. Bisogna intervenire e non solo in termini di dotazione di risorse verso la Sanità pubblica: occorre più personale medico, infermieristico e di vigilanza, più formazione, strutture più adeguate, presidi territoriali, macchinari e tecnologie più avanzati. E questo è un argomento, in ultima analisi, che investe il rispetto della Costituzione repubblicana.

Cosa vuol dire Sanità pubblica

Di cosa parliamo quando ci riferiamo al Servizio Sanitario Nazionale? Naturalmente di servizi erogati dallo Stato. Ma dietro questa struttura c’è un apparato concettuale di altissimo rilievo. Per la precisione un principio.

Quello stabilito, all’interno del Titolo II della Carta, che contiene gli articoli che regolano i “Rapporti etico-sociali” nella legge fondamentale: la famiglia, l’istruzione e, per l’appunto, la salute. Cosa dice, perciò, l’articolo 32 e, in particolare, il suo primo comma?

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. E siccome ogni parola della Carta ha, nello straordinario lavoro compiuto dai costituenti, un senso e un peso, si deve prestare particolare attenzione all’aggettivo “fondamentale” associato al sostantivo “diritto”.

L’Enciclopedia Treccani definisce la parola “salute” in questo modo: “stato di benessere fisico e psichico, espressione di normalità strutturale e funzionale dell’organismo considerato nel suo insieme; il concetto di salute non corrisponde pertanto alla semplice assenza di malattie o di lesioni evolutive in atto, di deficit funzionali, di gravi mutilazioni, di rilevanti fenomeni patologici, ma esprime una condizione di complessiva efficienza psicofisica”.

Dunque, per i costituenti italiani quello stato di benessere è un diritto fondamentale, perciò inalienabile e che vale per tutti, erga omnes. Lo Stato si assume, dunque, al livello dei suoi fondamenti, il dovere di assicurarci la salute. Questo dettato della Carta trovò il suo compimento, nel 1978, con la riforma attuata con la legge n. 833 che istituì il Servizio Sanitario Nazionale.

Il dettato costituzionale veniva attuato garantendo ai cittadini l’accesso universale alle prestazioni sanitarie. E proprio l’universalità, l’uguaglianza e l’equità erano i princìpi affermati con quel provvedimento. Il bene collettivo della salute veniva raggiunto garantendo le prestazioni sanitarie adeguate all’intera popolazione, senza pregiudizio dovuto alle condizioni sociali ed economiche.

Seguirono, nel tempo, altri provvedimenti che avevano, in particolare, gli obiettivi di introdurre meccanismi gestionali per controllare la spesa, incentivare la trasparenza, ridurre gli sprechi, valorizzare le buone pratiche e migliorare la qualità delle prestazioni.

Da ricordare un importante passaggio che avvenne nel 1992 con la legge delega 421per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”.

La legge prevedeva, al comma C dell’articolo 1, di “completare il riordinamento del Servizio sanitario nazionale, attribuendo alle regioni e alle province autonome la competenza in materia di programmazione e organizzazione dell’assistenza sanitaria e riservando allo Stato, in questa materia, la programmazione sanitaria nazionale, la determinazione di livelli uniformi di assistenza sanitaria e delle relative quote capitarie di finanziamento, secondo misure tese al riequilibrio territoriale e strutturale, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano; ove tale intesa non intervenga entro trenta giorni il Governo provvede direttamente”.

Con il decreto attuativo n. 502, le Unità Sanitarie Locali furono trasformate nelle Aziende sanitarie locali dipendenti dalle Regioni e svincolate dal controllo nazionale. Era nato l’assetto regionale della Sanità così come lo conosciamo oggi.

L’era della povertà sanitaria

Poco più di trent’anni più tardi la polemica intorno al tema del Ssn e della relativa spesa ha raggiunto il calor bianco. Decenni, questi, scanditi dalla crescita del debito pubblico e dal progressivo depauperamento strutturale dei principali pilastri del nostro Welfare State, sui quali è tristemente facile – e per nulla lungimirante – far cassa.

E oggi ci troviamo a confrontarci con una questione che viene definita come “povertà sanitaria”. Una definizione che cozza brutalmente contro i princìpi di universalità, uguaglianza ed equità della Sanità pubblica.

Nel suo ultimo Report, pubblicato il 9 aprile, la Fondazione Gimbe rileva che “nel 2022 ha rinunciato alle cure per motivi economici il 3,2% della popolazione, ovvero quasi 2 milioni di persone”.

Il Report della Fondazione è basato sui dati per il 2022 – gli ultimi disponibili – del Sistema dei conti della sanità (System of Health Accounts – SHA) dell’Istat, metodologia – spiega l’Istituto di statistica – “in linea con le regole contabili dettate dal Sistema europeo dei conti” utile per fornire ”un quadro informativo della spesa corrente nel sistema sanitario del Paese”.

Vediamo, dunque, i numeri del 2022. La spesa sanitaria totale ammonta a oltre 171 miliardi, 130 dei quali di spesa pubblica e 41 miliardi di spesa privata, dei quali quasi 37 miliardi (ossia il 21,4%) “out-of-pocket”, ossia pagati “di tasca propria”. Mentre, per circa 4 miliardi (2,7%), è stata intermediata da fondi sanitari e assicurazioni.

Il Report Gimbe mette in evidenza altri dati di rilievo, a partire da coloro che rinunciano alle prestazioni sanitarie. I dati, che provengono dal “Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile 2022”, realizzato da Istat e Cnel, ci dicono, spiega Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione, che a rinunciare, per uno o più motivi, vale a dire “problemi economici (impossibilità di pagare, costo eccessivo), difficoltà di accesso (struttura lontana, mancanza di trasporti, orari scomodi), lunghi tempi di attesa”, nel 2022, è stato il 7%, oltre 4 milioni di persone, della popolazione; una percentuale che supera il 6,3% del periodo pre-pandemica del 2019. E, a rinunciare per i soli motivi economici, come abbiamo ricordato sopra, sono quasi 2 milioni di persone, il 3,2% della popolazione.

“Se da un lato la spesa out-of-pocket supera la soglia del 15% – commenta Cartabellottaconcretizzando di fatto, secondo i parametri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, un sistema sanitario misto, va rilevato che quasi l’89% della spesa privata è a carico delle famiglie”. E questo è un dato importante.

Infatti, in questo ragionamento è necessario rivisitare il tema della Sanità di natura privata che non può sostituire o sovrapporsi a quella pubblica, che deve rimanere il pilastro fondamentale.

Bisogna, piuttosto, governare il processo che ha portato alla costituzione di oltre 300 fondi, casse e mutue indirizzati alle prestazioni sanitarie con oltre 15 milioni di iscritti, attraverso la contrattazione sindacale, consolidando una direzione di marcia nella quale la complementarietà sia effettiva, cioè, non vista come un elemento di contrapposizione o di sovrapposizione, ma come un elemento di completamento e di sostegno per i più fragili.

Va promossa, in particolare, la Sanità complementare di natura contrattuale che può avere un forte valore inclusivo, non solo per quanto riguarda il lavoratore standard, ma anche per chi è debole nel mercato del lavoro: ad esempio i lavoratori a termine.

La si deve rendere obbligatoria e puntare all’inclusione dei nuclei familiari dei lavoratori, comprendendo gli elementi più fragili, cioè bambini, anziani e disabili, in una logica di mutualità. Per questo è necessaria una rivisitazione della legislazione di questo settore.

Perché, mentre per quanto riguarda la previdenza complementare la legislazione relativa è nata fin dagli anni 90 del XX Secolo ed è ben strutturata, la regolazione per legge della Sanità integrativa è ancora estremamente debole e disorganica.

Tale intervento è necessario in ragione di due fenomeni demografici significativi in atto da lungo tempo. Il processo di invecchiamento della popolazione e la riduzione della natalità. A questi fenomeni si è accompagnato, sul lato socio-economico, sia un rallentamento del tasso reale di crescita del Pil, sia un peggioramento della qualità dell’occupazione e delle retribuzioni.

Dunque, le gravi preoccupazioni sulla tenuta del Welfare State includono il sistema sanitario così come quello pensionistico. La situazione demografica, in relazione a un aumento dell’aspettativa di vita, ci dice quanto sia necessario coprire sempre più le necessità di quella funzione del sistema nota come Long-Term-Care, l’assistenza di lungo periodo a coloro che perdono, progressivamente, la capacità di svolgere autonomamente le normali funzioni della vita quotidiana.

In conclusione, in questa fase storica, le risorse disponibili per assicurare quel fondamentale diritto costituzionale alla salute, a causa dello stato precario dei conti pubblici, scemano pericolosamente e progressivamente.

È ora di metter mano a nuove e serie azioni riformatrici, senza pensare che giochi di prestigio contabili, come quelli tentati dal Governo nell’affermare che le risorse sono cresciute anziché diminuite, possano nascondere la realtà. La povertà sanitaria non può costituire, insieme al lavoro povero, la nuova dimensione alla quale la nostra società deve rassegnarsi.

Per altri contenuti sui temi del lavoro e del welfare : cesaredamiano.org

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