De Gregori e Checco Zalone insieme in Pastiche: uno dei migliori album italiani degli ultimi anni

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Da pochi giorni è uscito Pastiche, il nuovo (no, non è un errore, state buoni) album di Francesco De Gregori e Checco Zalone, prodotto dallo storico bassista del cantautore romano, Guido Guglielminetti.

Dovremmo partire da Francesco De Gregori ma partiamo invece con un piccolo, per quanto possa servire, elogio di Checco Zalone. In genere si è soliti pensare che un comico possa fare nella vita solo il comico, e anche nella più intellettuale delle ipotesi si immagina che il comico nella sua vita privata sia una persona molto triste.

Però al comico in genere non viene data la possibilità di essere altro o di avere un’altra passione e allora si ribadisce e si sottolinea, in questo caso specifico, che “oh, in realtà Checco Zalone è un bravissimo pianista, oh ma guarda che Checco Zalone ha studiato al conservatorio”.

Più banalmente i film di Checco Zalone hanno un successo enorme tra il popolo, e quindi il mainstream lo inchioda al ruolo di intrattenitore senza considerare che possa essere anche altro. Così questo duo che tanto sembra assurdo in realtà non lo è per niente. Perché Pastiche risulta essere uno dei migliori album in circolazione. Ma non di questo momento e di questa ondata di frastuoni, è uno dei migliori album da un bel po’ di tempo a questa parte.

Il pianoforte che Checco Zalone suona in maniera straordinariamente malinconica riesce a regalare a De Gregori un’intensità che raramente l’artista è riuscito ad avere in passato. Attenzione, l’intensità è cosa ben diversa dalla profondità.

La profondità ti porta ad essere molto più distaccato mentre l’intensità nell’interpretazione di un brano ti porta a scoprirti totalmente, a dichiararti, mostrando anche le tue debolezze, anche quel filo di voce che a primo orecchio sembra quasi una stonatura in realtà è solo un filo di tristezza o anche la voce che chiede una tregua al tempo.

Pastiche è una sorta di posto bellissimo a cui ritornare, un pezzo di infanzia, un pezzo di malinconia, è un pezzo che ci è stato strappato via da tutte queste macchine che parlano al posto nostro e che pensano al posto nostro.

Pastiche è un album che restituisce il tempo, per pensare, per distrarsi dai rumori, per allontanarsi dalla velocità quotidiana, ti dà la possibilità di avere un altro sottofondo. Ed è poi un album che scaccia via l’abitudine e che porta a dissacrare tutto ciò che a tanti di noi può sembrare sacro.

L’introduzione di Viva L’Italia, canzone storica, simbolo anche in un certo senso delle piazze, ma non solo, che i più non avrebbero mai osato toccare o accostare a La Prima Repubblica di Checco Zalone.

Però invece sono proprio due brani che si aggrappano l’uno all’altro: Viva l’Italia di De Gregori è ed era una canzone che molto probabilmente andrebbe inserita come introduzione (nelle lezioni) per spiegare la storia del nostro paese, una specie di elenco di pregi e difetti degli italiani e di conseguenza della storia di questo paese, messi insieme in maniera poetica e drammatica.

Quel Viva l’Italia nonostante tutto, l’amore nonostante tutto, l’unità nonostante tutto. La Prima Repubblica di Checco Zalone in realtà non fa altro che aggiungere un pezzo alla storia che raccontava Viva l’Italia, solo che in maniera molto più amara, un’amarezza che riesce a mettere un po’ sotto i piedi quella speranza che leggevamo in Viva l’Italia.

Nella Prima Repubblica di Checco Zalone non c’è nessuna speranza o quasi di cambiamento, è molto crudele come lo è il cinema di Checco Zalone, appunto, perché il paese non è cambiato, l’italiano con i suoi difetti non è cambiato, e alla fine quando De Gregori canta “ed i debiti pubblici si ammucchiavano come conigli, tanto poi erano cazzi dei nostri figli”, come facciamo a dire che questa non è una verità storica?

Rimmel in questa versione prende tutta un’altra vita, sembra proprio un’altra cosa, un po’ come se fosse un’altra canzone, perché lo è. Ci sono altre mani, ci sono altri suoni, ci sono altre storie che sono passate in mezzo a – quelle pagine chiare e quelle pagine scure-.

Poi ci sono gli omaggi a Pino Daniele con Putesse Essere Allero o a Paolo Conte con Pittori della domenica. E poi c’è un omaggio bellissimo al trio Carpi-Manfredi-Patrizi, con il brano Storia di Pinocchio che ha dei tratti del primo Tom Waits, datato 1982 con Broken Bycicle, una storia struggente seppur carica di una bellezza inquantificabile. Così è qui il pianoforte di Checco Zalone, né più ne meno: struggente e bellissimo.

E poi c’è tutta la lentezza necessaria, la distrazione, la musica come sottofondo di chiacchere, il tempo da recuperare, e / o anche ricordare qualcosa che è stato, che non c’è più, che vive sempre e comunque tra le note, qualcosa a cui la vita dà un inizio e una fine, mentre la musica rimane, eterna.

Così Pastiche non è per nulla un album che racconta qualcosa che già si è sentito, è un rimando a qualcosa. Poi c’è un’altra storia, quella di Francesco De Gregori, di cui forse abbiamo scritto tutto ma in verità sappiamo nulla o sappiamo poco. Francesco De Gregori di cui abbiamo odiato o amato in tanti la proverbiale riservatezza per poi meravigliarci in maniera negativa negli ultimi anni del suo sembrare più cordiale con tutti.

Eppure, Francesco De Gregori ha sulle spalle la storia di uno che ha saputo raccontare l’uomo in tutte le sue vicissitudini, partendo da dentro. Ha raccontato la storia come qualcosa che si mostra attraverso la musica, non un dipinto, non una foto, ma qualcosa che rimane impressa, come i ricordi, in ogni loro forma, che sia di gioia o dolore, o che siano solo di un momento.

E poi il linguaggio, un grattacapo per tutti, perché il linguaggio usato da De Gregori ha concesso a molti la capacità di incuriosirsi, mentre ad altri ha concesso la possibilità di sentirsi stupidi, che certe volte è molto utile, nonché necessario.

Il linguaggio usato da Francesco De Gregori nelle sue canzoni ci ha concesso in maniera del tutto paradossale di usare la fantasia e di volare altissimo pur restando totalmente razionali o, meglio di portare il cervello e la testa da un’altra parte rimanendo, anche con grande difficoltà con i piedi per terra.

Quella di Francesco De Gregori è l’arte di chi non ha scritto canzoni per insegnare niente ma per lasciare, per ricercare, di portare e trasportare quel concetto tanto caro a Leonard Cohen, ovvero di cercare la bellezza in ogni cosa, di indossare l’eleganza anche quando tutti intorno indossano maschere da carnevale, anche se carnevale è passato da tanto tempo.

Se la politica che ha tirato per il cappello De Gregori a destra e manca avesse ricercato un minimo di quella bellezza, di quel modo introspettivo di guardare ai propri errori, se ci si fosse messi anche solo per una volta dall’altra parte della storia, come De Gregori ha saputo fare, in una maniera totalmente drammatica come nel Cuoco Di Salò, se avessimo mostrato anche pietà nei confronti di una storia che ci ha divisi, forse non saremmo arrivati a questo punto, forse non dovremmo discutere su chi deve o non deve festeggiare il 25 aprile.

E allora niente, come si dice, Pastiche è un album nuovo di un momento che rimanda ad un altro, come un settembre che ricorda luglio, proprio citando ancora Tom Waits, oppure di canzoni per ridere nel pianto. Dopo tanto tempo, ma davvero tanto, e non si fa per dire, Pastiche è un album che porta a dire “alza” il volume e fammi sentire e non “abbassa” che non mi voglio stordire (Perdonate la rima).

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