Elezioni del 1924, così i liberali consegnarono il Paese ai fascisti

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Cent’anni fa, 6 aprile 1924, si svolsero le ultime elezioni in Italia prima che il fascismo instaurasse la dittatura. Votarono 7.614,451 elettori, tutti maschi essendo le donne escluse dal diritto di voto, per la prima volta, per la Camera, a partire dai 25 e non come in precedenza dai trent’anni: il 63,8% degli aventi diritto, con un incremento del 5.4% rispetto alle precedenti elezioni, quelle del 1921.

Si votava con una nuova legge elettorale, firmata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanni Acerbo, che introduceva un cospicuo premio di maggioranza: la lista di maggioranza relativa, purché superasse il quorum del 25%, avrebbe automaticamente ottenuto i due terzi dei seggi: sarebbero così entrati in Parlamento tutti i 375 candidati in lista.

Il rimanente terzo dei seggi sarebbe stato diviso fra le altre liste in modo proporzionale: se ne presentarono nel complesso ben 23. C’erano le preferenze, a differenza di quel che succede da molti anni oggi in Italia: era possibile esprimerne 3 dove i seggi assegnati alla circoscrizione superavano i 20, 2 dove erano al di sotto dei 20.

La legge era stata discussa e decisa, prima che in Parlamento, nel Gran Consiglio fascista dove si erano scontrate soprattutto le posizioni di Michele Bianchi e del ras di Cremona Roberto Farinacci, principale esponente dell’ala “intransigente” del fascismo, quella che non vedeva l’ora di tornare allo squadrismo del 1921-22 con una “seconda ondata” dell’arrembaggio fascista.

Non era la posizione di Mussolini. La strategia del primo ministro era opposta: mirava ad allargare intorno al suo governo più che intorno al Partito nazionale fascista, l’area di consenso. Aveva in mente una gigantesca operazione di trasformismo, non dissimile da quelle in cui si era prodotto a lungo e con risultati eccellenti Giovanni Giolitti. Si trattava di fascistizzare l’intero quadro politico ma anche di “nazionalizzare” il fascismo vincendo la resistenza dei ras “intransigenti”.

Nel Gran Consiglio prevalse la posizione di Bianchi e il compito di discutere la legge fu affidato, in Parlamento, a una “Commissione dei 18” presieduta dallo stesso Giolitti, con vicepresidenti due esponenti importantissimi dell’Italia prefascista, gli ex presidenti del Consiglio Antonio Salandra e Vittorio Emanuele Orlando.

Della commissione, composta con criterio proporzionale, facevano parte tra gli altri Ivanoe Bonomi, Filippo Turati, Costantino Lazzari, Alcide De Gasperi, il comunista Antonio Graziadei. L’ostacolo principale erano i popolari soprattutto per la posizione rigidamente proporzionalista di don Sturzo.

Mussolini giocò la carta della minaccia intransigente, mise sul piatto della bilancia la possibilità della “seconda ondata”, si presentò come il solo leader in grado di contenere la minaccia di un ritorno al 1922. Il Vaticano, probabilmente a malincuore, allontanò Sturzo.

De Gasperi provò a trattare sia sul quorum necessario per accedere al premio, portandolo dal 25 al 40%, sia sul premio stesso, proponendo di abbassarlo al 60% dei seggi. Fu sconfitto in commissione e i popolari decisero di conseguenza di votare contro la legge in aula, determinandone così quasi certamente la bocciatura.

Mussolini salvò la situazione con uno dei suoi discorsi più abili, presentandosi con il suo volto più moderato. Spaccò i popolari conquistando così la maggioranza per la sua nuova legge elettorale. L’emendamento sull’innalzamento della soglia fu sconfitto di misura. La legge fu approvata con 223 sì contro 123 no il 23 luglio 1923. La maggioranza dei popolari votò a favore della legge Acerbo. Le camere furono sciolte il 25 gennaio dell’anno successivo.

Mussolini portò a compimento l’operazione di trasformismo della destra rifiutando l’alleanza con altre liste ma aprendo la cosiddetta Lista Ministeriale, la sua, agli esponenti degli altri partiti che avessero voluto aderire. Giolitti rifiutò, più per motivi di forma e stile che di sostanza e riuscì comunque a farsi eleggere.

Rifiutò anche Bonomi ma la sua lista non riuscì invece a entrare in Parlamento. Salandra, Orlando e numerosi ex popolari entrarono invece in quello che fu subito ribattezzato il listone. Sulla vittoria di quel listone nessuno ebbe mai dubbi.

Le opposizioni carezzarono all’inizio l’idea di astenersi dalla prova, poi prevalsero i pareri opposti. Tra le 22 liste concorrenti una, detta “Bis”, era una lista civetta partorita dal listone stesso: serviva a superare comunque il tetto dei 375 candidati previsti dalla legge Acerbo.

Le violenze che in seguito avrebbe denunciato in aula il socialista Giacomo Matteotti, nel discorso che gli costò la vita, ci furono davvero e furono moltissime: aggressioni, pestaggi, sedi bruciate. Non era quello che desiderava Mussolini, era anzi il contrario.

Il capo del fascismo chiese alle prefetture di intervenire per evitare troppe violenze. Solo in un caso diede mano libera agli squadristi, ormai trasformatisi in Milizia: contro le liste dei fascisti dissidenti, che il duce considerava un pericolo.

Nei loro confronti la persecuzione fu doppia, da parte degli squadristi ma anche dello stesso governo. Il capo dei dissidenti, Cesare Forni, fu aggredito a Milano e ridotto quasi in fin di vita dalla stessa squadra che pochi mesi dopo avrebbe rapito e ucciso Matteotti, quella composta tra gli altri da Amerigo Dumini e Albino Volpi.

Ma gli squadristi ignorarono gli appelli del loro duce e si abbandonarono a continue aggressioni contro i rivali. Le elezioni si svolsero davvero in un clima di violenza che certamente le condizionò in parte.

Ma la vittoria del Listone non fu conseguenza di quel clima come ammise subito francamente Piero Gobetti che definì l’operazione di trasformismo che aveva portato nella lista di Mussolini i principali leader liberali “il capolavoro del mussolinismo”.

La vittoria del listone non fu neppure dovuta alla legge Acerbo. Il Listone da solo raggiunse il 64,9%, praticamente lo stesso tetto che gli sarebbe stato assegnato dal premio di maggioranza. Con l’aggiunta dei voti conquistati dalla lista “Bis” superò quel tetto arrivando al 66,3%. Della legge Acerbo si parla di solito come esempio del suicidio di una democrazia. Il suicidio ci fu davvero, ma fu politico e complessivo, non imputabile solo a quel premio di maggioranza.

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