Intervista a Roberto Morassut: “Il Pd è la caricatura di un un partito del ‘900”

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Roberto Morassut, parlamentare Pd e membro della Direzione nazionale, Vicepresidente della Fondazione Giacomo Matteotti: Campo largo. Campo giusto. Campo minato. Nel centrosinistra, e dentro il Pd, a dominare è sempre e solo il rovello delle alleanze. Siamo alle solite?
Credo che la stessa espressione di “centrosinistra” non sia più adatta a sintetizzare questa fase evolutiva della politica italiana tesa a indicare una larga alleanza di forze che si oppongono alla destra al governo. E questo perché il Movimento Cinque Stelle, fondamentalmente, non si considera né una forza di sinistra, né di centro, né di destra ma si muove fuori o oltre queste categorie e le ritiene superate. Si sente una espressione politica di natura “civica” che attualmente si colloca all’opposizione ma non per questo rinuncia ad una serrata competizione con il Partito Democratico con l’obbiettivo di superarlo elettoralmente. Come ho sempre detto Giuseppe Conte è un populista moderato, un uomo intelligente ma con una cultura politica, con categorie di fondo che non sono di “sinistra”, sono distanti dal ceppo socialista, cattolico democratico riformista che noi rappresentiamo, e anche le formazioni di centro oggi fuori dalla maggioranza faticano a riconoscersi nello schema tradizionale del “centrosinistra”. Con questa realtà dobbiamo fare i conti. Motivo per il quale l’idea di un nuovo centro sinistra o addirittura di un “nuovo Ulivo” non ha in prospettiva alcun fondamento.

Dunque, che fare, si sarebbe detto un tempo?
Nella specifica fase che attraversiamo noi dovremmo operare per costruire uno “schieramento nazionale”, di vero interesse nazionale, capace di costruire le condizioni per una ricostruzione democratica del Paese, dei suoi elementi essenziali che si ritrovano nella giustizia sociale, nel rafforzamento del sistema dei servizi e delle infrastrutture, nella riforma delle strutture democratiche dell’Italia, nel ruolo internazionale dell’Italia. Tutte cose sulle quali il “sovranismo” sta fallendo e sta tradendo gli interessi del Paese. Lo “schieramento nazionale” può far sentire tutti protagonisti e parte di una storia nuova e davvero comune, di una comune missione. Poi c’è una competizione inevitabile, fin tanto che i sistemi elettorali hanno una natura proporzionale. Anche la destra ha questo problema ma loro governano e i rapporti di forza interni sono più certi, pertanto riescono a gestire meglio i conflitti. Tra le opposizioni è diverso. In questo discorso torna il tema del Partito Democratico e della capacità di autoriformarsi. Penso che la spinta propulsiva della elezione di Elly Schlein rischi di esaurirsi. Occorre riprendere il progetto della “Costituente”, pigiare sull’acceleratore con coraggio. Perché in politica se vuoi cambiare le cose devi rischiare, non c’è altra strada. Si deve comandare per cambiare e non cambiare sé stessi pur di comandare. Il confine tra queste due dimensioni dell’agire politico è sempre sottile ma determinante.

Lo “strappo” di Bari, le divisioni in Piemonte, la disputa in Basilicata. L’asse Pd-5Stelle non appare in buona salute. Sono solo incidenti di percorso locali?
In un contesto elettorale proporzionale le alleanze restano sullo sfondo, tanto più che le elezioni politiche sembrano al momento molto lontane. Adesso conta il voto europeo e poiché, come ripeto, la linea del Movimento Cinque Stelle è affermare una propria leadership all’interno delle opposizioni, tutto viene di conseguenza. Questa posizione dovrebbe essere scardinata e privata di ogni alibi da una azione più dinamica e intelligente del Pd perché in alcune situazioni noi avremmo potuto puntare su un metodo di selezione delle candidature meno interno, meno dominato dalle spinte delle nostre varie componenti o correnti che dir si voglia. Insomma, in una situazione del genere meglio il “metodo Abruzzo” che il “metodo Basilicata”. Bisogna togliere al Movimento Cinque Stelle ogni alibi e ogni spregiudicata tentazione, come sta avvenendo a Bari e al tempo stesso dimostrare che il Pd non è intrappolato nel groviglio dei suoi duelli interni ma sa respirare, dare respiro a tutti, inventare. Non possiamo giocare di rimessa sul tema morale o sul tema della capacità di allargare il nostro raggio di azione.

In vista delle europee, nel Pd si assiste alla corsa alle candidature e al loro posizionamento nelle liste. Non è un bel vedere.
No. Decisamente non è un bel vedere. Anche perché questo riduce lo spazio della proposta politica e programmatica che invece può favorirci perché noi siamo forse l’unica forza in campo con un profilo europeista credibile. Ma vede… qui c’è un punto che torna al tema del nostro rinnovamento, del nostro linguaggio, della nostra vita interna, del profilo della nostra classe dirigente. Se ti candidi o il partito ti candida devi metterti nella condizione mentale di combattere per ampliare i consensi a te e alla tua lista. Non puoi pensare di essere eletto già in partenza grazie alla posizione in lista o grazie alle intese di corrente. Si è persa la capacità e la voglia di conquistare il consenso e i voti, di battersi sul campo. Soprattutto lo hanno perso i gruppi dirigenti ai massimi livelli che anche nelle ultime elezioni politiche hanno badato all’elezione sicura nelle liste bloccate senza rischiare nemmeno in un collegio uninominale. Avrebbero dovuto invece dare l’esempio e combattere in battaglia campale, magari con una tutela, ma combattere. Non averlo fatto ha rafforzato l’idea che si è eletti “prima” e non “dopo” il voto. Se sei un generale devi stare davanti alle prime linee e non sulla collina…

L’Unità sostiene, per ciò che rappresentano in campi cruciali come la pace e il garantismo, le candidature di Marco Tarquinio e Ilaria Salis. Candidature osteggiate da una parte del Pd. È un problema di concorrenza o di contenuti che quelle candidature scomode simboleggiano?
Mah…anche qui non vedo purtroppo un tema di contenuti. Magari il Pd avesse aperto ancora di più le proprie liste e dato il segno di una grande capacità di respiro. Purtroppo per molte figure “esterne” è diventato rischioso accettare una candidatura in presenza di una competizione cosi serrata delle correnti interne. Nello stesso tempo c’è uno sbarramento interno che non vede di buon occhio apporti esterni che possono ridurre lo spazio di accaparramento delle preferenze sicure. È evidente che così non si va lontano e il Pd resterà una forza di medio calibro. Senza una chiara politica e una chiara visione d’insieme dell’Italia, senza un metodo democratico interno davvero aperto, senza una modalità di selezione delle élite che privilegi la forza politica reale delle donne e degli uomini, è difficile dare quella consistenza elettorale solida che assegni senza incertezze ai Democratici la guida dello schieramento riformatore e quindi ridefinisca su basi di maggiore chiarezza le stesse alleanze. Se non si avvia un processo “costituente” di una forza democratica e socialista che non sia la caricatura di un partito del Novecento – come oggi, di fatto, siamo – noi non saremo decisivi né per vincere né per resistere. Il tema è aperto da un decennio. Lo dissi nel 2016 e insisto. Ma per fare questo ci vuole il coraggio che solo i grandi dirigenti, le grandi classi dirigenti possono avere.

Intanto il mondo è dentro quella che Papa Francesco ebbe a definire “la terza guerra mondiale a pezzi”. Dall’Ucraina a Gaza, ai tanti conflitti “dimenticati” che insanguinano il pianeta. Ma la politica italiana discute di altro. Siamo fuori dal mondo?
Nella prima metà del Novecento ci sono state due Guerre Mondiali ma forse una unica grande Guerra Mondiale intrecciata ad una guerra civile e sociale su scala globale. E in questo processo l’innesco lo hanno acceso le nazioni povere o che ritenevano di essere escluse dal cerchio ristretto delle decisioni essenziali del governo europeo e mondiale. E lo hanno fatto per ragioni interne, per domare, sublimare con la guerra gravi crisi sociali interne. Nel 1911 fu l’Italia, con l’impresa coloniale libica ad aprire il varco alle guerre balcaniche che poi sfociarono nella Grande Guerra. E poi dopo il 1918 la guerra continuò con l’aggressione delle truppe bianche contro la neonata Repubblica dei Soviet fino almeno al 1922. Poi sorsero le dittature moderne attraverso l’uso della violenza e delle armi: il fascismo e il nazismo. Poi, ancora l’Italia, con la guerra in Etiopia nel 1936 riaccese nuovi conflitti. E poi la Guerra di Spagna, che fu una prova generale della Guerra Mondiale. E poi l’aggressione nazista prima all’Austria, poi alla Cecoslovacchia, poi alla Polonia…. Insomma, le guerre mondiali non hanno avuto mai un inizio definito e una fine definita. Sono stati dei processi decennali. Slittamenti, smottamenti, scivolamenti ai quali hanno contribuito parole, slogan, dichiarazioni, la rabbia delle Nazioni sconfitte o emarginate – come oggi la Russia – e in modo determinante la incapacità delle nazioni occidentali democratiche di rendersi conto che il mondo era plurale, già allora. Un’incapacità politica, culturale e diplomatica che sorgeva e ancora sorge dalla convinzione che c’è un mondo “giusto” e un mondo “sbagliato”. Papa Francesco segnala esattamente questo. Siamo ormai dentro un clima in cui la parola “guerra” ripetuta continuamente insieme agli aggettivi “terza”, “mondiale” e “atomica” si fa strada nella normalità delle coscienze e rischia di entrare nel novero delle possibilità. In Italia, nel piccolo microcosmo italiano, che può essere paragonato a quello di uno staterello preunitario ai tempi del Congresso di Vienna del 1815, tutto ciò sembra secondario. Meglio rincorrere la dichiarazione del giorno, la battuta cretina del momento, il teatrino di periferia… Il tema è il ruolo dell’Europa e le elezioni dovrebbero contribuire a farlo emergere come la chiave di un diverso sbocco della crisi mondiale. E il Pd deve battersi per una proposta politica chiara e superare il livello infimo delle discussioni attuali.

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