Santanchè salvata dalla maggioranza, ma con la Meloni il clima è teso

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Daniela Santanchè non è salva anche se finge di esserlo. Ieri, come già Salvini il giorno prima, ha disertato l’aula di Montecitorio dove si votava la mozione di sfiducia contro di lei. Era partita di buon mattino per Napoli, museo di Pietrarsa, per il meet forum sul turismo sostenibile: “Non è che mi sottraggo. Ho cose più importanti da fare”. La suspense del resto era inesistente: non c’era partita e lo sapevano tutti dall’antivigilia. La mozione ha preso 121 voti, quelli contrari sono stati 213, due in più di quelli che meno di 24 ore prima, sempre a Montecitorio, avevano fatto scudo a Salvini. Stavolta però Italia viva, che aveva votato con il resto dell’opposizione contro il vicepremier, era allineata con la maggioranza: “Non basta un avviso di garanzia per mandare a casa i nemici politici”, ha spiegato Renzi. La ministra ha aspettato il voto per cantare vittoria a voce spiegata e dichiararsi, azzardando parecchio, fuori pericolo: “Sono tranquilla. Nessuno mi ha chiesto di dimettermi. Il Parlamento è sovrano e il voto mi sembra molto chiaro”. Le cose non stanno proprio così. Se arriverà il rinvio a giudizio sarà una scossa di terremoto che azzererà quasi tutti i passaggi precedenti. In aula la ministra continuerà a non correre alcun rischio. La spada di Damocle è la decisione che prenderà Giorgia Meloni, ancora incerta. I rapporti tra lei e la ministra sono tesi anche per lo scontro sotterraneo che le ha viste fronteggiarsi sulle nomine dell’ente del turismo. Chigi le ha avocate a sé mettendo da parte le scelte della titolare del dicastero.

Ma questo è il meno: il problema è il danno d’immagine che la presenza di una Daniela Santanchè sotto processo per un reato di quelli che irritano l’opinione pubblica di ogni schieramento procurerebbe senza dubbio al governo e alla stessa immagine della premier. Il rischio per la ministra non è affatto scomparso. Ma è anche vero che la mozione respinta ieri le dà comunque un aiuto. In ogni caso potrà rivendicare a buon diritto il parere del Parlamento sovrano a suo favore e la stessa premier, qualora decidesse di tenere Santanchè comunque, avrebbe un comodo appiglio: potrà dire che a decidere è stato il Parlamento, non il governo e non lei. Nel complesso, dunque, il senso della doppia sfiducia e della conseguente doppia sconfitta che l’opposizione si è andata a cercare da sola sfugge. Il presidente dei deputati FdI Foti affonda la lama nella ferita aperta: “Colleghi dell’opposizione, se continuate così all’opposizione ci resterete per trent’anni”. Rampelli se la gode e si diverte: “Doppio assist della sinistra, doppio goal del centrodestra”. Spavalderia parlamentare a parte, la domanda implicita negli scherni dei tricolori è sensata: perché l’opposizione ha deciso di ingaggiare due battaglie perse in partenza, che non potevano non compattare la maggioranza, come infatti è stato, e che, oltretutto, blindano la posizione di Salvini e rendono comunque molto più solida anche quella di Daniela Santanchè?

In parte è la tendenza, comune a tutto lo spettro politico italiano, a cavalcare l’argomento del giorno strillando a voce alta, anche a costo di farsi dettare agenda e strategia politica dai social e dai talk show. È un limite serio che pesa non solo sull’opposizione ma la vicenda di questi giorni mette in evidenza anche un altro nodo non sciolto, altrettanto esiziale e che invece soffoca solo l’opposizione. La mozione contro la ministra del Turismo è stata decisa, senza consultarsi con nessuno, da un M5s in cerca di visibilità e deciso ad apparire come la sola forza veramente decisa nell’opporsi al governo. Propaganda elettorale. La sfiducia contro Salvini è stata messa in campo da Calenda, sempre con l’obiettivo di evidenziare il proprio ruolo, far notare la propria esistenza e imporsi come forza più compiutamente atlantista di tutti. Propaganda anche questa. Il Pd si è trovato costretto a rincorrere trafelato i possibili alleati, trasformando così le due mozioni in una prova di forza dell’intera opposizione contro la maggioranza. Salvo il particolare per cui, mancando appunto la forza in questione, la prova è stata invece di debolezza. Il partito di Elly Schlein, peraltro, non avrebbe potuto muoversi diversamente, pena il sentirsi accusare un minuto dopo dagli alleati di complicità con il governo, con la ministra indagata per truffa, con il vicepremier ancora in flirt con il turpissimo di Mosca.

La disfatta è dunque, in parte rilevante anche se non per intero, conseguenza di una mancanza totale di strategia unitaria, di direzione comune, di leadership e guida. La destra invece ha dimostrato ancora una volta di sapersi muovere, quando necessario, come una coalizione solida, nonostante le tensioni interne. Trattasi di una di quelle differenze che da sole bastano a fare la differenza. Va da sé che per la destra, coalizione che esiste da trent’anni tondi, il gioco è molto più facile di quanto non lo sia per un’opposizione che invece a un polo unitario deve ancora dar vita. Ma per recuperare lo svantaggio e colmare il gap è necessario muoversi nella direzione giusta, non in quella diametralmente opposta.

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