Scontro tra Pd e M5S, e la destra gongola

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Il M5S è la nemesi del Pd. Da almeno 11 anni, che in politica sono un’eternità, il partitone del centrosinistra cerca una strada per risolvere il rapporto con il Movimento nato dal vaffa senza trovarla. Le ha letteralmente provate tutte. Fino alle elezioni del 2013 le dimensioni del guaio erano sfuggite.

Il Movimento si profilava già come una realtà ma non troppo preoccupante. La spina sembrava essere l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, che alle europee del 2009 aveva raggiunto l’8%. Tutto cambiò nel giro di un biennio, tra il 2011 e il 2013.

Di Pietro ruppe con Casaleggio, che sino a quel momento aveva gestito sia l’IdV che i 5S, poi crollò con una sola disastrosa intervista tv. Il governo Monti, che nel 2011 rimpiazzò quello di Silvio Berlusconi, mise le ali ai 5S. Nelle politiche del 2013 raggiunsero il 25, 56%: appena 4 punti meno della coalizione guidata da Bersani, allora segretario del Pd, più dello stesso Pd da solo.

Bersani tentò la strada del dialogo. Grillo lo umiliò in diretta streaming. Per il Movimento il partito di Bersani era sempre stato uno dei due nemici principali: il declino del Cavaliere lo aveva trasformato nel rivale numero 1.

Il solo dialogo che Grillo e soprattutto Casaleggio, unica testa politica del M5S, contemplavano era quello delle armi. Il fallimento del tentativo di Bersani spalancò i cancelli al governo di larghe intese con Fi e alla segreteria Renzi.

Il nuovo e dinamico segretario rovesciò come un guanto la strategia del predecessore. À la guerre comme à la guerre e il ragazzo di Rignano, forte di quel 40% e passa che aveva raccolto nelle euro urne quasi doppiando i 5S fermi al 21% accettò volentieri il conflitto assoluto: nessun punto di contatto, nessun pur vago tentativo di costruire ponti.

Il partito del Nazareno e quello di Grillo erano alternativi e antagonisti su ogni piano. Le comunali del 2016 si incaricarono di rivelare quanto evanescente fosse il successo elettorale di Renzi, il referendum sulla riforma costituzionale oscurò per sempre la stella del rampante che aveva dato la scalata al Pd con lo spirito delle Opa ostili.

Nelle elezioni del 2018 i 5S, ormai orfani di Casaleggio raggiunsero il 32% e passa. Cinque punti in meno della destra ma 10 punti tondi in più rispetto all’intero centrosinistra. Il risultato fu il governo gialloverde e almeno sembrò chiaro che i rapporti tra il Partito di Zingaretti, nuovo segretario, e quello il cui “leader politico” era il vicepremier Gigi Di Maio potevano essere solo quelli di inimicizia assoluta impostati dal detronizzato Renzi.

Macché. Le cose si ribaltarono in una sola estate anzi in un solo mese, agosto 2019. Salvini, inebriato dal trionfo alle europee e dai sondaggi stellari, provocò la caduta del primo governo Conte. Su indicazione di Renzi e inizialmente contro il parere del segretario Zingaretti il Pd accettò di dar vita a una sino a quel momento inconcepibile alleanza Pd-M5S confermando Giuseppe Conte di nuovo premier.

La strategia che Zingaretti impostò nei due anni successivi, complice l’imprevista emergenza Covid, aveva senso. Conte era un 5S per modo di dire, senza nemmeno la tessera in tasca. Uomo per tutte le stagioni, era di suo più propenso ad allearsi col Pd che con aree della destra e comunque dopo la rottura con la Lega non aveva altre alternative. La coalizione, forgiata nella crisi Covid, era vista come credibile dagli elettori e la popolarità del premier era immensa.

Zingaretti puntava a renderlo il candidato della coalizione più che dei 5S e non era lontano dal farcela. Se dopo la caduta del governo Conte 2, nel gennaio 2021, si fosse votato, la vittoria di un centrosinistra con Conte candidato premier sarebbe stata quasi certa.

Il governo Draghi, voluto dal capo dello Stato ma anche, inspiegabilmente dallo stesso Pd, affondò quell’opzione e il nuovo quadro, con Conte ora leader dei 5S, Letta al posto di Zingaretti e Draghi a Chigi era completamente diverso. La guerra in Ucraina mise la pietra tombale sul progetto Zingaretti.

Per un po’ Letta si mosse sulla stessa linea del segretario precedente ma con tutt’altra convinzione. Conte considerava Draghi una specie di usurpatore e non gli perdonava l’averlo sloggiato da palazzo Chigi.

La linea dell’ormai leader dei 5S sulla guerra in Ucraina era considerata inaccettabile dagli Usa, da Draghi e dallo stesso Letta. Ma non c’era solo la guerra come ostacolo nei rapporti tra i due partiti: il cavallo di battaglia di Conte era il Superbonus.

Draghi lo considerava la peggior jattura immaginabile. Letta, pur non potendolo abbattere, concordava. Il Pd passò a una politica sempre più ostile nei confronti del partito quasi alleato che sfociò alla fine nella crisi del governo Draghi, con tanto di elezioni anticipate nel settembre 2022 e ripresa della guerra aperta.

La nuova strategia del Pd di Letta era approfittare delle elezioni per uscire una volta per tutte dalla via crucis rappresentata dal Movimento ormai del tutto contiano. La destra, senza un’alleanza tra i due partiti di volta in volta acerrimi nemici oppure amiconi, avrebbe vinto facile, ma almeno i 5S sarebbero usciti una volta per tutte di scena, spazzati via da una campagna mediatica alla quale si prestò il 90% e passa delle testate che li indicava come responsabili della crisi, inaffidabili, una mina vagante da disinnescare definitivamente.

Invece i 5S sopravvissero. Ridimensionati a dir poco. Dimezzati. Ma vivi. Col 15,43%, a meno di 4 punti dal Pd col suo scarno 19%. I 5S restavano l’ingombrante presenza con la quale era impossibile non fare i conti.

A complicare le cose arrivò poi la vittoria di Elly Schlein al congresso che scombussolava la strategia di Conte basata tutta su una sorta di divisione delle aree di influenza: un Pd moderato e centrista sotto la guida di Bonaccini, il M5S più radicale sui piani delle politiche sociali e dell’eterno cavallo di battaglia del giustizialismo. Schlein, la segretaria “movimentista” invece insidiava Conte sul suo stesso terreno.

Da allora e sino a pochi giorni fa il copione si è ripetuto sempre uguale: i 5S che privilegiavano la competizione sulle ragioni dell’unità, Schlein pronta sempre a cedere pur di blindare l’accordo virtuale con Giuseppe Conte. Bari ha fatto saltare per l’ennesima volta il tavolo. Oggi è di nuovo guerra.

Dopo le europee si tornerà a cercare un accordo. Ma sino a che Pd e 5S non riusciranno a trovare una quadra e una sintesi in grado di non crollare al primo cambio di quadro politico, per la destra la partita sarà sempre vinta in partenza.

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