Sopravvissuti alla strage dei morti di sete, ora annegano nel cinismo di Stato: cronaca di un calvario

Rmag Breaking News

Sono vivi soltanto perché li ha salvati una nave di soccorso ostacolata in ogni modo dal governo italiano. Ora l’Italia gli fa penare uno straccio di documento per vivere senza nascondersi. Sono stati per più di una settimana senza acqua né cibo, al largo delle coste della Libia, tra i cadaveri dei loro compagni di viaggio. Uno di loro ha visto morire suo figlio piccolissimo e sua moglie. Ha vegliato i loro corpi, ha cullato per giorni il bambino ormai morto sotto il sole, poi li ha dovuti lasciare al mare. Un dodicenne ha visto morire sua sorella e ha continuato a chiedere per 72 ore: “Dov’è mia sorella? Era qui accanto a me, dov’è?”.  Una donna nigeriana ha urlato “basta” s’è spogliata e è finita in acqua. Ognuno di loro ha visto altri buttarsi in mare per morire. Ognuno di loro ha pensato di essere il prossimo ad essere bruciato dalla morte per sete. Hanno bevuto solo acqua di mare. Un ragazzino magrissimo portato in salvo a bordo della Ocean Viking, della ong Sos Mediterranée, mi ha chiamata con la mano per per un’ustione che gli dava dolore e mi ha detto: “Morti, morti, tutti morti, tanti, piccoli, tanti piccoli, uno bebè, tutti morti”. Aveva gli occhi ancora sbarrati dal terrore. Non si alzava nemmeno per andare in bagno.

Eppure non hanno penato abbastanza. Portati in salvo in Italia, ora devono passare per le forche caudine di chi gli chiede: sei del Gambia? Non è così male poi il Gambia, non vieni da un paese da cui si ha diritto a fuggire. Hai 17 anni? E chi me lo dice a me che non ne hai compiuti 18 e non stai mentendo? Ordiniamo una misurazione del diametro del polso di questo sospetto bugiardo.

Ma davvero noi, che siamo l’Italia, dobbiamo trattare così 23 disgraziati, la metà di loro minorenni, sopravvissuti alla morte per stenti sotto il sole, oggi vivi soltanto perché un ragazzo francese di vedetta sul ponte della Ocean Viking la mattina del 13 marzo, dopo una fortuita deviazione di rotta, li ha visti col binocolo nella luce bianca dell’alto mare e ha urlato l’allarme? Non possiamo evitare questo ulteriore calvario a 23 ragazzi strappati alla morte certa da un gruppo di soccorritori francesi, inglesi e italiani ai quali l’Italia ha bloccato per punizione la nave in porto per ben 3 volte negli ultimi sei mesi e che ora tiene sotto la minaccia della confisca incombente?

Nave che quella mattina era lì in mezzo al mare – dove dovrebbe stare una missione navale europea e non c’è – soltanto perché una giudice a Brindisi ne ha sospeso il fermo amministrativo deciso sulla base del decreto Piantedosi abbattuto pezzo per pezzo da tre sentenze di fila di tribunali diversi (ultima sospensione del fermo ieri decisa a Ragusa nei confronti della Sea Watch) ma ancora meticolosamente applicato?

“Un altro giorno e sarebbero morti anche loro” ha detto uno dei medici di emergenza appena visitati i sopravvissuti a bordo della Ocean Viking. Erano 25 quando li abbiamo tirati su da quel gommone grigio, con motore rotto. Due di loro non erano in grado di sopravvivere a bordo e sono stati portati via da un elicottero arrivato dall’Italia mentre stavamo velocemente risalendo verso nord. Uno è morto all’ospedale di Agrigento, l’altro è stato ricoverato a Palermo.

Gli altri 23 sono stati evacuati con un trasbordo notturno folle, pericolosissimo, in mezzo al mare davanti al porto di Catania. “A kidnapping” diceva un marinaio scuotendo la testa. Sembrava davvero un rapimento. Loro non capivano perché li mandassimo via lì all’improvviso nottetempo. Negato il permesso alla Ocean Viking di entrare in porto per farli scendere. Negato anche d’aspettare almeno le luci dell’alba per non svegliarli nel mezzo della notte. Li abbiamo dovuti far alzare all’una. Avvolti nelle coperte grigie hanno dovuto attraversare il ponte di coperta scavalcando (alcuni di loro non potevano camminare se non sorretti) parte degli altri 336 naufraghi che dormivano sul legno nei sacchi di plastica rossa dell’emergenza.

Il capitano del rimorchiatore Finlandia, uscito dal porto di Catania scortato da una motovedetta della Guardia costiera per venire a prenderli, quando ha avuto davanti i primi naufraghi è sbottato: “Ma nessuno mi aveva avvisato da terra che stanno in queste condizioni!  Non si fa un trasbordo in mare a persone che stanno così!”. I soccorritori dell’Ocean Viking che con le imbracature trasportavano i sopravvissuti da un bordo all’altro l’hanno visto furioso e impotente.

Arrivati a terra con il personale del 118 catanese, i 23 sono stati portati in un centro di prima accoglienza in via Forcile a Catania. Dice il capogabinetto della Prefettura, Antonio Gulli: “I minori, non ricordo se fossero 7 o 9, dopo 24 ore sono stati portati via.  I 3 sotto i 14 anni sono in città sotto la tutela del Comune di Catania, gli altri under 18 sono in un centro di accoglienza straordinaria per minori a Caltagirone. Gli adulti sono stati portati via dopo 48 ore e sono tutti nel Lazio”. A bordo i minori risultavano essere 12, di certo tra i sopravvissuti di quella strage portati nei centri accoglienza del Lazio c’è anche un diciassettenne. Non hanno ancora avuto accesso a un avvocato, nemmeno i legali dell’Asgi, l’Associazione giuridica studi sull’immigrazione, di solito molto bene informati, hanno notizia di loro. “Nessuno ci ha coinvolti, nessuno ci ha allertati” dicono. Nei posti dove i sopravvissuti alla strage stanno adesso, non hanno assistenza psicologica. Nessuno degli infermieri con cui hanno avuto a che fare negli ospedali sapeva fossero ferite dalla miscela di carburante e acqua marina quelle bruciature che hanno alle gambe, ai testicoli, alla schiena.

“Carburante? Pensavo fossero ferite fatte con un ferro da stiro, infatti non capivo. Naufraghi? Strage? A me nessuno m’ha avvisato di niente. Ma sicura che sono loro?” ha detto un medico esterrefatto appena il ragazzo che stava medicando è riuscito a passargli una chiamata.

Quando la mattina del 13 marzo i naufraghi sono saliti nel rhib EZ1, uno dei tre gommoni veloci della Ocean Viking, tre di loro ci hanno subito raccontato che erano un centinaio alla partenza. Che non tutti sono saliti perché non c’entravano nemmeno seduti uno sull’altro. Che in quei giorni alla deriva erano morti donne e bambini. Che un elicottero è passato molte volte a bassa quota sulle loro teste senza soccorrerli (e senza mai dare l’allarme). Che hanno pregato e hanno buttato i cadaveri in mare. Poi sull’Ocean Viking uno di loro ha detto di aver pagato il viaggio in dinari l’equivalente di 600 euro, di aver visto subito che il motore era vecchio ma di non aver pensato che l’avessero mandati a morire.

Sono rimasti quasi subito senz’acqua, ci sono state discussioni mentre erano alla deriva. Alcuni volevano tornare indietro. Come? Alcuni si sono gettati in acqua, altri sono caduti. I ragazzini hanno assistito alla disperazione dei grandi che discutevano su cosa fare dei cadaveri. “Puzza puzza, i morti puzzano” ci hanno raccontato a bordo. Hanno avuto paura di essere loro i prossimi a morire. E hanno avuto paura di finire in mare anche loro. Hanno ancora paura. Sono sotto choc.

E si sono trovati in Italia a fare viaggi nei pullman senza sapere dove li stessero portando, senza poter parlare con uno psicologo. “Non sapevo dove mi portavano, non sapevo cosa mi succedeva, non potevo chiedere, c’era solo l’autista, io ora non lo so dove sono, cosa mi fanno?” domanda uno di loro.

L’uomo che ha perso moglie e figlio prima di lasciare la nave, la notte del 16 marzo davanti al porto di Catania, s’è fermato ad abbracciare una ragazza francese con cui aveva parlato a lungo durante il viaggio. A lei ha raccontato dettagli terrificanti. È tormentato dall’idea che sua moglie aveva avuto un’intuizione, aveva avuto paura prima di imbarcarsi. È ossessionato da quell’esitazione. Non può vivere così, ha bisogno di aiuto. Se Cristo non è lui, chiedetevi voi che credete, chi è Cristo? A noi a bordo, prima di scendere ha sorriso, ha detto: “Grazie”.

Ma davvero l’Italia non è capace di dare a tutti loro una protezione internazionale? Sono 23 persone, più uno finito incosciente all’ospedale di Palermo fanno 24. Ventiquattro esseri umani sopravvissuti a morte certa grazie a una nave norvegese alla quale il governo italiano fa la guerra, a quella e a tutte le navi delle ong della flotta civile di soccorso. (Al largo di Lampedusa ieri altro naufragio con tre dispersi, tra loro una bambina di 4 mesi). Dobbiamo torturarli questi 24 spiegandogli che il Gambia o il Senegal non sono posti abbastanza disgraziati per chiedere rifugio da noi? Dobbiamo mandare un diciassettenne a farsi misurare la circonferenza del polso per credergli? E se il suo polso fosse, secondo le misurazioni standard, da considerare compatibile con i diciotto anni compiuti dobbiamo dargli un foglio di espulsione? Davvero l’Italia è ridotta così?

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *