Chi era Ernesto Sabato, la lezione dello scrittore argentino: la nuova resistenza si chiama solidarietà

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La parola “resistenza”, di cui si abusa nel nostro lessico politico-mediatico, si è un poco consumata, come del resto altre parole, da “resilienza” a “inclusione”. Però attraverso un grande scrittore argentino proviamo a reinterpretarla: “Credo sia necessario resistere: questo era il mio motto” (Ernesto Sabato, Resistenza. La folle speranza di un nuovo umanesimo, Castelvecchi).

Resistere a che? Per Sabato viviamo tutti nella “vertigine”, dentro un “treno vertiginoso” in cui viaggiamo spaventati e senza più guardarci, una civiltà iperproduttiva che accelera l’esistenza, in cui non c’è più posto per il dialogo, per le chiacchere da caffè, per la lentezza. In che modo “resistere”?

Se “si trova il coraggio di partecipare al dolore dell’altro la vita si trasforma in un assoluto”, e secondo lo scrittore si può perfino morire in pace. E ancora: “L’essere umano, paradossalmente, si salverà soltanto se metterà a rischio la sua vita per l’altro, per il suo prossimo, o per i bambini abbandonati nel freddo delle strade… duecentocinquanta milioni di bambini abbandonati per le strade del mondo”.

Vi sembra un umanesimo dolciastro, stucchevole, deamicisiano, imbevuto di cattolicesimo e retorica umanitaria? Eppure nella Storia troviamo non solo guerre, torture e persecuzioni, ma anche “milioni di uomini e donne che si sacrificano per prendersi cura dei più sfortunati”.

Ecco, proprio loro “incarnano la resistenza”. Forse bisognerebbe partire da questo dato empirico, incontrovertibile e non dai cieli della filosofia o dal dover essere kantiano. Nella natura umana trovano posto, da sempre, sia egoismo e avidità, e sia solidarietà, sostegno ai più deboli, cura verso il prossimo (come sappiamo la stessa spinta etica ha un fondamento biologico, “darwiniano”: la cooperazione, l’aiuto reciproco, sono stati meccanismi adattivi almeno al pari della competizione feroce).

Si tratta oggi soltanto di sapere “come diceva Camus, se il loro sacrificio è umile o fecondo…un interrogativo che deve radicarsi in ogni cuore con la gravità dei momenti decisivi”, Inoltre, Sàbato – scomparso nel 2011 – è stato un grande scrittore – autore di romanzi e saggi filosofici – sempre impegnato sul versante civile.

Ricordo che nel 1985 il suo impegno per la difesa dei diritti umani gli valse la nomina a presidente della Commissione Nazionale chiamata a investigare sui crimini della dittatura militare, denunciati nella relazione Nunca más.

Leggendo le pagine di Sàbato mi chiedevo: sì, manifestiamo – giustamente – per i bambini di Gaza, o per le vittime civili dell’invasione russa dell’Ucraina, ma noi i bambini abbandonati nelle nostre strade riusciamo ancora a “vederli”? È una questione di sguardo, solo da qui parte un nuovo umanesimo.

Li vediamo i tanti esseri umani umiliati e offesi, calpestati, “fatti a pezzi dalla vita” (Aldo Capitini) che affollano le nostre città. Un mio amico scrittore, Paolo Morelli, dice che solo quando si ruppe una gamba, e fu costretto per un po’ di tempo a zoppicare e ad andare con una stampella, si accorse di tutti quelli che zoppicano per la strada, e sono tantissimi! Altrimenti sono invisibili.

Eppure per “partecipare al dolore dell’altro” basterebbe solo partire dal proprio, dalla infermità originaria della condizione umana, dell’esistenza stessa. L’esistenza è un dono e un miracolo, evidentemente, ma è da sempre esposta al male e alla sventura, come sa ognuno di noi.

Da questo riconoscimento nasce la “democrazia” della ginestra, l’invito di Leopardi a unirci tutti, non tanto contro il comune nemico, che per lui era impropriamente la “natura” (natura che peraltro abbiamo quasi annientato!) quanto contro quella infermità cui mi riferivo prima.

Sàbato ci offre poi un’altra preziosa indicazione. Va bene, soccorrere il prossimo, però sapendo che non è garantito che potremo farlo, che insomma occorre mettere nel conto il proprio fallimento. Questa era l’obiezione di Ivan Illich all’enfasi di uno slogan pur nobilissimo come “I care”: realisticamente nessuno di noi può prendersi cura dei bambini di Gaza, o di qualsiasi paese africano, dunque ripetere quella frase è solo autoconsolatorio.

Infatti Sàbato distingue tra due diversi sentimenti: accettazione e rassegnazione. La prima è una disposizione saggia e contemplativa, è rispetto per il ritmo delle cose (dunque accettazione della propria limitatezza e impotenza), la seconda invece è inerzia e rinuncia ad agire.

Lo scrittore argentino precisa che la crisi attuale (il testo è del 2000) non è solo del capitalismo ma di una “intera concezione del mondo e della vita basata sull’idolatria della tecnica e sullo sfruttamento dell’uomo”, tanto che “per ottenere denaro tutti i mezzi sono stati validi”.

Tra l’altro oggi, e non poteva prevederlo, con l’estensione del lavoro cognitivo – per definizione precario e sottopagato – ognuno è diventato un autoimprenditore, costretto a sfruttare se stesso! Infine insiste su un concetto di origine religiosa ma di cui si ostina a cercare un equivalente laico: vocazione o appello

. Ognuno dovrebbe essere fedele alla vocazione del proprio destino, a una chiamata silenziosa, a valori che ci indirizzano a grandi decisioni, “nei bivi difficili da affrontare”. Potremmo obiettargli: e se scoprissimo che il nostro destino coincide, poniamo, con quello di Eichmann, di un aguzzino nazista, quali conseguenze trarne?

Qui Sàbato svela però la sua fiducia nella natura umana: certo, i “mostri” ahinoi esistono, però riconoscere la realtà significa riconoscere la relazione con gli altri, la eguale dignità di ogni essere vivente, altrimenti si resta nell’allucinazione, nell’irrealtà.

Non occorre che siamo certi dell’esito delle nostre azioni, in buona parte imponderabile e che dipende da innumerevoli fattori assolutamente fuori controllo. Piuttosto, conta solo rispondere a quell’appello, magari tra qualche chiacchera nei caffè…. In tale risposta si racchiude la speranza, folle, ma indistruttibile, di un possibile umanesimo.

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